Ritorni

Lunga è la stoffa dei giorni che si è dipanata dall'ultima volta che ho scritto qui. Un'altra pelle, altri occhi e pensieri che faticosamente cercano di rinnovarsi. Un relativismo di universi vissuti, un piede in due scarpe che non accenna a decidersi. La città che avevi lasciato sembra inizialmente offrirsi nelle sue comodità: libri con caratteri che riesci a leggere, una lingua che riesci a capire. Eppure... L'Italia di sei, sette mesi fa non c'è più. Nuovi partiti con nuovi nomi: gente che ti riempe di volantini elettorali mentre passeggi o ti rechi a colloqui di lavoro e qualche politico che pensavi non potesse avere lunga vita rifiorire alla televisione. Lavori che si accumulano e si impilano per cercare di avere un minimo di autonomia, anche se al solo pensiero sorridi in segno di scherno per non votarti ad una sorda disperazione. Buste paga che servono a coprire giusto qualche corso che ti incaponisci a seguire per poter arricchire il tuo curriculum. 
"Non ci hanno insegnato come far fronte al nostro futuro. Per anni a loro non è importato nulla della carriera dei propri studenti, solo riempirsi la bocca di paroloni come "costrutto culturale" e chi più e più ne metta...!", parole di un aperitivo sociale che si rivela essere un grido accorato, una rabbia sviscerale per coloro i quali ricoprono posizioni alle quali ambivamo qualche anno fa, quando avevamo deciso di proseguire con la nostra formazione. Si legge sulle pagine di Internazionale che siamo la generazione più sfruttata e meno riconosciuta: studi olandesi che danno corpo a quello che sappiamo già da tempo. Intanto quel "farsi grandi" che scrivevamo nei temi delle elementari con convinzione sembra molto lontano. Non siamo capaci di vederci in vesti adulte, ci isoliamo in un nostro mondo fatto di libri, e per l'altra metà ci sforziamo di rendere le condizioni presenti migliori, per quanto soffocati dagli innumerevoli impegni presi, perché, sì, non siamo nelle condizioni di dire di no a nessuno."Vivere per lavorare/O lavorare per vivere/Fare soldi per non pensare": ormai anche lo Stato Sociale si presenta a Sanremo e riveste la rabbia di melodie superficiali che servono a dimenticare. Come le patatine e il vino scadente dell'aperitivo sociale, in cui i propri problemi personali sembrano essere condivisi, un sentimento comune.
Intanto la città sembra sempre più svuotarsi di centri di sviluppo culturale e sociale: gruppi ed associazioni chiuse, un malanno già iniziato sette mesi fa e che sembra non accennare a recuperare. Il simbolico della città sembra essere oggetto di accattonaggio da parte di quelli in odor, o forse qualcosa di più, di fascismo, di xenofobia.
Uscendo dal rifugio personale, dall'alcova dei propri vizi segreti, la libreria, ci si scontra con il simbolico: un venditore di colore che ti ferma, puntando sul capitale simbolico del razzismo. Non importa che studi tu abbia fatto, che partito illuminato voti (o sei costretto a votare in mancanza di meglio, piuttosto che cadere nel baratro populista o in un vuoto liberalismo con la parvenza di sinistra), che la tua categoria professionale abbia firmato un documento contro il concetto di razza e l'abbia presentato alla Camera dei Deputati, tu sarai sempre una maschera. Lo diceva Fanon, no? Maschere nere e maschere bianche. Ma invece di un interno bianco in uomini neri che cercano di lavare via l'onta di essere nati nella parte sbagliata nel mondo, uno stato di negazione totale della propria umanità perdurato dal colonialismo, si hanno tante maschere bianche e maschere nere in rotta di collisione. Non sei più una persona, sei un simbolo: di vittima costantemente oltraggiata per le maschere nere, di aguzzino egoista ed ignorante per quelle bianche. Una violenza del simbolico, che non conosce le sfumature, le ambiguità--non guardi a terra perché non vuoi "contaminarti," guardi a terra perché non vuoi essere fermata, non vuoi trovarti in una situazione in cui non sai come comportarti. Non sai cosa fare perché sai già che qualsiasi risposta tu darai rispetto al prodotto in vendita, sarai giudicata nei termini di maschera: dall'altro lato, un essere umano che gioca sulle maschere per potersi pagare da vivere. Condizioni sociali che non conosci del tutto, ma che immagini siano difficoltose e che in parte sono descritte nei rari servizi giornalistici di qualità che riesci ad intercettare. Libri che non hanno alcuna attrattiva e costruiti, con una strategia di marketing, attorno a quel simbolico opporsi di maschere: "Cosa pensano gli immigrati degli italiani", "Imbarazzantismi (al cui interno si trovano battute tese a ridicolizzare butade razziste della peggior specie)", "Cucina africana", "Leggende africane". Libri che non si venderebbero mai al di fuori di quella specifica relazione inter-personale condita da sensi di colpa storici. 
"La cultura non è solo quella," indicando la tua sporta di evasioni dalla realtà che hai deciso di comprare, facendo i calcoli su quanto resta nel conto in banca per tutte quelle cose che devi fare per il tuo curriculum. Giusto, non è solo quella: la cultura dovrebbe essere in grado di non aprire gli idranti di fronte ad una folla di studenti venuti a protestare per l'ennesimo comizio fascista in una delle piazze della città. Cultura sarebbe quella di integrare sul serio le persone, non rendendole maschere di simboli e di crimini storici che non si saneranno mai restando sul metaforico, sulla donazione spinta dal senso di colpa e non da un attivo processo di ascolto. La cultura sarebbe della stessa pasta umana di quel ragazzo seduto a fianco che ti sorregge quando l'autobus caccia una frenata che mette a repentaglio il tuo equilibrio. Un "ciao" e un sorriso prima di scendere, quell'accoglienza che non si aspetta nulla in cambio. Dobbiamo davvero non pensare? Stordirci di vie di fuga? O piuttosto rompere il silenzio e la violenza del simbolico?

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