Carnets de Thèse: racconti di sopravvissute



Tutto comincia con un progetto di tesi. Il desiderio di varcare il limes tra studenti e professori, essere considerate come una di loro. La vita da ricercatrice diventa qualcosa di idealizzato, quel traguardo che ha un sapore quasi da Olimpo. Nessuno però ci ha preparate a quello che seguirà dopo. Un inferno, per alcune un più mite purgatorio ma comunque costellato da paranoie, lavoro sedentario in completa solitudine. La protagonista di Carnets de Thèse sorride di fronte a chi l'avvisa che la convivenza con il suo ragazzo metterà a dura prova il rapporto. In fondo cosa sono tre anni rispetto a una vita intera? Una quisquilia. E invece, appunto, no. Il tuo supervisore della tesi incarna perfettamente il clima che sei costretta a respirare d'ora in avanti: uno spettro, una guida non-guida, che ti sembrerà il più delle volte inutile. Le mail diventano un dispiegarsi delle peggiori paranoie e congetture cervellotiche seconde solo a quelle che avvolgono un innamorato in crisi esistenziale come descritto da Barthes. Ecco che il mito del ricercatore si sgretola: non vi sono certezze, non vi è un livello di sapienza superiore. Ecco che ti viene affidato un corso su una materia che, fino a un momento prima, non conoscevi, se non qualche cosa di superficiale, appreso sui banchi di scuola e sulle aule a gradoni dell'università, un esame da pochi crediti, dato per poter discutere la tesi. 


Questa dimensione fantasmagorica caratterizza anche gli altri aspetti della vita da dottorandi, basti pensare agli interventi alle conferenze. Rivière ricostruisce nei minimi dettagli il colloquio, talmente preciso che può essersi svolto benissimo in Inghilterra, in Italia, in qualsiasi altro paese al di fuori dell'Exagon. Ma perché nessuno fa delle domande sul mio intervento? Preparato con la massima cura e per il quale ho passato i peggiori venti minuti della mia vita, come una nuotatrice in apnea infinita, esso diventa pure parole al vento. Ci incamminiamo tremebonde al buffet, sperando di intercettare almeno qualche commento sul nostro lavoro... E invece no, ci ingozziamo come movimento spontaneo, avulso dalla nostra testa, ora ridotta a un criceto sulla ruota per il continuo rimestare sui repertori peggiori dei nostri incubi altrettanto peggiori.

Diventiamo degli spettri anche per le nostre famiglie, per il nostro ragazzo o la nostra ragazza, se siamo fortunate da avere qualcuno sul quale scaricare tutte le frustrazioni che stiamo passando. La nipotina della protagonista del Carnet candidamente equipara la zia a una bambina cresciuta, in piena crisi da Peter Pan: la tesi diventa una scusa per non assumersi le proprie responsabilità, per frapporre una barriera, una torre d'avorio o una bolla, più o meno impermeabile, tra noi stesse e il mondo. Intanto le altre conoscono persone o consolidano i loro rapporti affettive, vanno avanti, si sposano e fanno figli, costruiscono progetti. Anche se siamo femministe, in qualche modo, gli stereotipi più retrivi si affacciano nel nostro repertorio di mostri: ci sentiamo come delle suore laiche incomprese, in un mondo sempre più felice rispetto a noi.

La nostra vita è come quella in trincea: non c'è un punto di ritorno alla vita che avevamo prima. No. C'è solo uno stress post-traumatico, magari da deridere, magari da compiangere, ma che resta adeso a noi. Cerchiamo di riprendere la vita civile, ma ci è impossibile: si spalanca il periodo ancora più nero del post-dottorato, siamo ormai prese nel vortice autodistruttivo della ricerca, è come una droga di cui non possiamo fare a meno. C'è qualcuna che, a fatica, riesce a tornare, a cambiare la propria vita, dismettere i panni della dottoranda da schematizzazioni compulsive e tabelle di marcia degne dello sfruttamento del primo capitalismo, come, appunto, Tiphaine, che ora si è data al fumetto. Ma i sopravvissuti, è risaputo, non possono non parlare dei propri traumi: una cosa che accomuna l'autrice con la sottoscritta. 

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