Teheran: lineamenti di un’antropologia urbana

Una città. Due anime. Accuratamente ripartite in due metà: la parte alta, arroccata sulle montagne, l’anima ricca e occidentalizzata, ricettacolo di ambasciate; la parte bassa, nella quale regna un mondo in odor di ruralità, povero e superstizioso, fatto di bazar impolverati, copiosi nella loro offerta di beni di consumo, dalle cassette piratate alle spezie, ai tappeti dai rossi accesi, cacofonico nella confusione dei corpi assembrati. L’etimologia del nome Teheran è avvolta nel mistero. Chi pensa ad una piana desertica e calda, chi ad un luogo per sparare. Un mistero che prova anche chi, da fuori, prova a captare qualcosa della sua essenza. Sembra che non ci sia nulla al di fuori di Teheran. Tutti i film che arrivano in Occidente sono il prodotto di una borghesia urbana, maschile. Le voci periferiche, popolari, femminili sono filtrate da questa prospettiva. E pur apprezzando questi film, spesso molto introspettivi e dalle sottili dinamiche psicologiche, ci si chiede spesso di questa mancanza nel coro.



Anche l’ultimo libro di Amir Cheheltan, Via della rivoluzione—il primo libro dell’autore tradotto in italiano—vede un corpo femminile oggetto della rapacità maschile. Occhi languidi sui quali le fantasie maschili disegnano un quadro di possessività, di esercizio di comando, che sia la punizione corporale nelle carceri o uno stupro che non viene completamente compreso come tale né dalla parte della vittima, né dell’aggressore. Un femminile indifeso che è spesso associato, sia nella produzione cinematografica che in quella letteraria, ai ceti sociali più bassa, alla parte bassa della città. In un moto discensionale, la parte oscura e crudele delle parti alte si scarica sul fondo, come liquami di scarico, acque nere senza sistemi di filtraggio.

Teheran giaceva ai piedi del monte Elborz come un cadavere tumefatto. Soffriva per i gas di scarico delle auto, per il tradimento dei suoi abitanti, per l’aridità del deserto che lambiva a sud e per le montagne svettanti verso il cielo a nord che impedivano all’aria e all’umidità di raggiungerla. La città era densa di mal odori, di melodie dissonanti, di crimini minori e di divertimenti a buon mercato. Gli scoli aperti che partivano da nord discendevano fino alla parte bassa portando nelle dense acque scure rifiuti di verdure, pannolini e bucce di melone. Nei rivoli si trovavano anche vecchi copertoni, carcasse di cani e pure l’anello bianco di un preservativo usato, unico e galleggiante accenno all’erotismo in questa grande città, se si esclude il scintillio nello sguardo di qualche ragazza pudica.
Certo, la guerra tra Iran e Iraq era finita, le strade erano state sistemate e i rivoli fra l’asfalto riempiti. Agli incroci, larghe fioriere di cemento accoglievano crisantemi e violette dalle foglie ingiallite e coi pistilli caduti per il caldo. Le colonne di cemento dei cavalcavia erano state dipinte di un azzurro violento. Le scuole facevano anche quattro turni al giorno, e dovunque si guardasse si vedevano solo bambini, da ogni parte. Nonostante la sua lunga storia, Teheran non aveva mai visto una simile bolgia e una tale sfortuna.
Smog, rumore, l’aria carica di polvere, sporco, odore di intrigo e vomito che peggioravano la situazione. Urla, clacson, frenate improvvise con conseguenti imprecazioni che sembravano risalire dagli inferi e che si espandevano nell’etere in tale abbondanza da non risparmiare nessuno. Era un continuo di bisbigli, risate forzate, barzellette sporche sulla politica, e la paura dietro agli occhi della gente, ormai divenuta abituale, quasi un segno di eresia: tutto ciò si aggiungeva all’atmosfera già inquieta, rafforzandola.
Amir Cheheltan Via della rivoluzione


Ogni tanto si cerca di invertire la direzione di marcia, dal basso verso l’alto, come nel caso dei protagonisti di Oro Rosso, di Panahi (2003), che, per soddisfare la famiglia della futura sposa di uno dei due personaggi e salvare quindi l’onore, tentano di comprare un gioiello in una boutique esclusiva della parte alta. Facendo gli straordinari nel consegnare le pizze proprio in quell’area, dove i capricci della borghesia e degli arricchiti si incontrano con la dimensione più pragmatica dei fattorini: il protagonista principale si tuffa nella piscina, insolente nel suo lusso vuoto e anaffettivo, ebbro di un’abbondanza che lo confonde e che vorrebbe replicare in piccolo. Vani sforzi: il gioielliere più volte mortifica l’orgoglio dei due personaggi, rispedendoli nella parte bassa, per poi pagare di tasca propria le conseguenze.


Le scorie dell’alta borghesia di Teheran sono spesso in esubero, non riescono del tutto ad essere riciclate dal basso. Le coppie di Asghar Farhadi sono esempio dell’asfissia di quel gruppo sociale: running in circles, manifestando un cancro che difficilmente può essere debellato. Padri di famiglia che pensano che tutto sia dovuto a loro, basta comprare i silenzi e l’onore altrui con i soldi, madri di famiglia o mogli insoddisfatte, che si rivoltano silenziosamente o in maniera passiva-aggressiva, la controparte della docilità disarmante delle loro coetanee meno fortunate. Uno scavo a fondo nei recessi della psiche umana che trova qui un grado di perfezione e di tragica poesia, come nell’ultimo gioiello di Farhadi, Il cliente, dove non si comprende dove finisca il palcoscenico del teatro e quello della vita reale. Antropologia della città e degli spazi che coincide con la psicoanalisi.




Commenti

Post più popolari