Arundhati Roy in Pillole: Parte Prima
Per
quanto il libro di Sunil Kilnani, Incarnations:
India in 50 Lives,
venga presentato come un ritratto obiettivo e critico rispetto ad una
certa idea stereotipata dell’India, basata, per intenderci, sulla
non-violenza e la spiritualità accogliente delle diversità, la sua
ferma volontà di definire l’India come una delle più grandi
democrazie esistenti, fondata sulla diversità e quindi, a differenza
del Pakistan, politicamente stabile, mi ha lasciata piuttosto
perplessa. Per deformazione professionale, so bene quanto il concetto
di “unità nella diversità” in India sia in realtà uno specchio
per le allodole. Inoltre, le rivolte scoppiate alla Jawaharlal Nehru
a seguito del suicidio dello studente dalit
Rohith
Vemula, nel Febbraio 2016, non rappresentano certo lo spettro di un
paese democraticamente solido, confermato dalle conversazioni fatte
per un’occasione accademica alla quale ho preso parte pochi mesi
dopo le rivolte studentesche. Leggere Arundhati Roy, autrice de Il
Dio delle piccole cose,
ha rafforzato la mia perplessità su quanto detto da Sunil Kilnani.
L’articolo
uscito sul quotidiano indiano The
Caravan
e poi tradotto per Internazionale
nel Luglio 2016 riprende molti dei concetti fondamentali affrontati
dall’autrice, prima di tutto la critica di una società feudale
fondata sulla legittimazione della divisione e sfruttamento di
classe: una piccola élite
si
arroga il diritto, per mandato divino, di godere dei propri benefici
a scapito di una moltitudine senza voce, gli intoccabili, da una
parte, e gli adivasi
o le popolazioni autoctone presenti ancora prima dell’invasione
degli Ari, comunemente nominati dal governo indiano come i “tribali”.
Ricordo che una volta vidi uno spezzone di un film di Bollywood, come
al solito molto kitsch,
dove i “tribali” venivano presentati come omaccioni forzuti e
impulsivi, presi nel vortice delle danze, ma in qualche modo visti
con occhio benevolo, un po’ bucolico, un mito del buon selvaggio
dei poveri, insomma. Quello
che la realtà senza lustrini ci restituisce, invece, sono delle
popolazioni nient’affatto ingenue,
continuamente sottoposte ad ogni genere di soppruso e violazione dei
diritti umani, che hanno trovato nella lotta di classe armata
maoista
che
parte dalle zone rurali una
via non solo per difendersi, ma anche per rivoluzionare quella stessa
idea di India basata su una fondamentale ineguaglianza di stampo
élitario, nonché
l’imperialismo culturale ed economico occidentale.
Arundhati Roy ha seguito questi ribelli, definiti “naxaliti” dal
governo (dal
villaggio dove scoppiarono le rivolte per la prima volta, Naxalbari),
per
un paio d’anni e vi ha dedicato tre saggi poi riuniti in un
raccolta (Broking
Republic).
Leggerli
permette di fendere la nebbia spumeggiante di Bollywood, del motto
“unità nella diversità” e penetrare nelle profonde logiche
dello stato indiano, definito senza mezzi termini da Roy come una
finta democrazia nata e sostenuta dal genocidio, da una guerra nella
pace o, detto altrimenti, la guerra è
pace.
Gli
stupri e i pogrom, ai danni di dalit,
adivasi,
sikh e musulmani sono lì a ricordarcelo e Arundhati Roy lo scandisce
a chiare lettere, tanto che, proseguendo nella lettura dei suoi
saggi, si è costantemente colpiti da una sorta di déjà-vu.
Bollywood
sposa la retorica dello status
quo:
ciò che definisce l’”indianità” e la sua presunta civiltà è
l’induismo. In realtà, come l’antesignano Bhimrao Ambedkar nel
suo Annihilation
of Caste aveva
scritto, “la
società indù è un mito. La parola stessa è straniera. È il nome
che
i maomettani attribuirono ai nativi (che vivevano a est del fiume
Indo) allo scopo di distinguersi da loro” (“Il
mio cuore sedizioso”, articolo pubblicato in The
Cavaran
e tradotto da Internazionale,
8/14
Luglio 2016). Il
public,
la parola hindi per indicare “popolo”, è quindi rigorosamente
separata dal sarkar
o
“governo” (“Il
potere pubblico dell’Era dell’impero”):
in una generale linea di continuità, gli imperialisti inglesi
vengono sostituiti dall’élite induista e di estrema destra, da una
parte, e il partito del Congress, fintamente progressista e in realtà
fortemente apparentato con le oligarchie economiche e le
multinazionali, dall’altra, venendo quindi meno al principio
democratico di rappresentazione della gente comune. Vista la
preoccupante deriva populista di questi tempi, cresciuta su e
alimentata da un vuoto istituzionale, verrebbe da chiedersi se
quest’”indianità” in realtà non sia il nocciolo dell’era
capitalista, se, quindi, non ci appartenga.
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