C, Concorsi

Siamo in fila. Disciplinati ma vigili. Con in mano il nostro curriculum vitae, la promessa di dimostrare che il nostro 110 e lode ce lo siamo meritato tutto. Colloqui che si dissolvono come neve al sole, apparentemente innocui: non vi si chiedono pareri tecnici su determinati contesti per i quali vi siete specializzati. No. Quello che si vuole sapere sono sempre le stesse cose, un proporsi come una merce da vendere sul mercato. E vi chiedete perché avete dovuto inserire il vostro CV nel modulo della partecipazione al concorso, dato che sembra che nulla di voi si sappia. E poi gli altri candidati. Chi nervoso, chi fatalista, un po' come quando facevate l'università, la mattina degli esami davanti allo studio del o dei professori, del o degli assistenti.
Un tempo guardavate gli assistenti come si guarda ad un professore ordinario: tutto vi sembrava simile, forse i capelli variavano, più incanutiti o più scuri, ma tutto e tutti doveva essere trattato con rispetto e deferenza. Mai vi sareste immaginati di essere al posto di quegli assistenti. Ma forse quest'immaginazione è totalmente vanificata: il posto sembra sempre così irraggiungibile. Professori che escono fuori, sfiorano il ginocchio di uno dei candidati, un sorriso, una frase apparentemente strana, qualcosa che non quadra, che stona. Ma che poi torna a chiarirsi con il senno di poi, un metodo oramai rodato nel mondo dei concorsi pubblici.
Dicevamo: gli assistenti ci parevano così distanti dal nostro mondo, ora invece ci si sfiora e il mondo ci appare sotto un'altra prospettiva e forse vorremmo tornare studenti. Sì, perché a quel tempo tutto ci sembrava logico: chi ha passione per quella materia persevera, forse la meritocrazia non sempre viene valorizzata come si dovrebbe, ma, in fondo ai nostri cuori, non ci crediamo del tutto, vediamo le lamentatio dei nostri professori come delle litanie di generazioni un po' ossidate sul loro aureo passato (ma sarà stato effettivamente così? O sono loro piuttosto che si lamentano n'importe quoi?). Contratti, riforme del lavoro ci toccano e non ci toccano, noi agogniamo a quella coroncina di alloro, a quella tesi rilegata, il futuro ci sembra in mano nostra o, quanto meno, gestibile.
Soprattutto, crediamo che la nostra preparazione, le nostre capacità, la nostra conoscenza, prima o poi, con i sacrifici del caso, con la fatica necessaria ma, in quanto finalizzata al raggiungimento di uno scopo, sopportabile, ci sarà riconosciuta, Pensiamo che gli elogi dei docenti e quel monito vaiall'estero siano lì per un motivo.
Poi si ritorna a quelle aule e ci si scontra con una realtà che ha logiche sue, proprie. Logiche che sono al soldo di un favore che deve essere ricompensato, non importa quanto si sia fatto bene il colloquio, non importa quante pubblicazioni ci siano all'attivo. Ragazze non ancora laureate che ammettono candidamente, forse pensando che tanto in Italia questo sistema clientelare è così ramificato che non si corre neanche il rischio di denunce o ricorsi, che sono state costrette a fare quel concorso da chi è in commissione. Professoresse evidentemente in imbarazzo che propongono colloqui nelle ore di ricevimento per espiare un punteggio del colloquio evidentemente distonico rispetto all'effettiva performance fatta. Complimenti a non finire. Assolutamente inutili, ridicoli. "Shitty" come si direbbe dalle parti dove ho vissuto. Sulla carta il vostro percorso vi fa fare bella figura. Ma è solo una fiera delle vanità, senza alcuno sbocco concreto rispetto a quello che vorreste fare, per il quale vi siete impegnati in questi anni. 
Salari da precari ma che attirano gli interessi di quanti si trovano nei gangli più deboli del sistema: ed ecco che assegnisti di ricerca, professori a contratto, tutti coloro, insomma, che dovrebbero ambire a ben altre posizioni, vogliono il loro pezzo di torta. E non un pezzettino, ma la parte migliore. Così dicasi per i neo-dottori di ricerca, sempre più propensi a rifare la propria esperienza di dottorato, come un disco rotto, per la semplice ragione che ci si accorge che la situazione dopo il dottorato è senza sbocco alcuno. Un sistema cannibalico per cui chi ha un posto lo vuole mantenere, non importa se questo significa produrre qualcosa di asfittico, senza una reale crescita che implica anche un comprendere che bisogna passare la palla al testimone.
Si vive alla giornata, un orizzonte rateizzato fondato sulla repubblica del qui ed ora. Progetti solo quelli sulla carta stampata, progetti scritti per guadagnarsi il pane quotidiano ma spesso concepiti unicamente per procacciarsi quel tozzo rimasto. La conoscenza per la conoscenza ormai è divenuta rose e cioccolato, beni di lusso che possiamo solo ammirare alitando sulla vetrina senza farci scoprire dalle commesse dentro, uno specchio per le allodole per le nuove leve studentesche vomitate dai licei. E il cerchio si ripete.

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