La logica dei corpi: Festival di Internazionale 2016
È
un appuntamento al quale cerco di non mancare mai, anche a costo di
ritardare il mio ritorno nella verde Inghilterra, in qualunque punto
del pianeta mi trovi, i giorni del Festival di Internazionale
a Ferrara (amatissima città emiliana in cui sogno di vivere in un
futuro incerto quanto ovattato) torno a casa. Un evento che, però,
ho notato, non ho mai riportato in questo blog e credo sia giunta
l’ora. L’edizione di quest’anno raccoglieva un’eredità
annuale particolarmente pesante: terrorismo, populismi di destra che
prendono il sopravvento in modo preoccupante, l’uccisione del
dottorando Giulio Regeni e il gigantesco scheletro nell’armadio del
regime egiziano connesso all’eredità spesso scomoda delle
primavere arabe. Probabilmente per questo il festival ha ricevuto
un’attenzione mediatica e politica senza precedenti, se si esclude
la comparsata di Matteo Renzi nel 2014, con relativo lancio di uova.
Il
messaggio comune che ho potuto captare in quest’edizione è la
stretta relazione tra libertà e corpi: il corpo del giornalista
egiziano che ha ricevuto il Premio Anna Politkovskaja all’apertura
del festival, Hossam Bahgat, imprigionato nelle quattro pareti della
sua camera, nei confini soffocanti dell’Egitto, un corpo
impossibilitato a ritirare ciò che gli spetta di diritto per le
misure repressive del regime nei suoi confronti, misure che hanno
interessato il suo corpo in passato, imprigionato nelle carceri e,
molto probabilmente, torturato, come nel caso di Giulio Regeni.
Un
corpo, quello di Giulio, come ha detto la legale dei suoi genitori,
che parla. Parla di una violenza inenarrabile, disumana: «Il volto
di Giulio era diventato piccolo, piccolo, piccolo. Lo abbiamo
riconosciuto dalla punta del naso. Da quel viso abbiamo visto tutto
il male del mondo» (dichiarazione dei genitori di Giulio Regeni
riportata dal senatore Luigi Manconi). Un corpo che smentisce tutte
le piste e la macchina del fango, come direbbe Saviano, avviata dal
governo egiziano per infamare la memoria di Giulio e, al tempo
stesso, discolparsi di un crimine il cui mandante tutti conoscono. La
verità si sa, fin dall’inizio, ma la connivenza del governo
italiano con il regime, unita alle dinamiche dittatoriali volte, come
direbbe Achille Mbembe, a dipingere una facciata di armonia su misura
per il culto personalistico del dittatore impedisce che questa verità
venga scritta agli atti e sui libri di storia.
Il
corpo martoriato di Giulio parla anche di come questo regime
disciplini i corpi degli egiziani: «la tortura non è solo
mutilazione dei corpi, ma annichilimento della personalità e
degradazione della persona» (discorso del senatore Luigi Manconi).
Si colpiscono le funzioni vitali e simboliche, come il volto, per
impossessarsi di ciò che, nell’antica Roma, si indicava come
persona, ovvero la maschera degli antenati che gli attori
indossavano nei riti funebri, divenendo quindi carne della loro
carne. L’incorporazione del sé viene quindi frammentata, rasa al
suolo per imprimere l’ideologia, l’ubbidienza del e per il
dittatore.
Una
logica inversa a quella di Giulio, il quale, attraverso
l’osservazione partecipante e, quindi, naturalmente,
l’incorporazione, cercava un dialogo con l’alterità, con
l’altro. Non una proiezione-imposizione di sé, quanto un umile
processo di mimetizzazione: come ha dichiarato la madre, Paola
Deffendi, Giulio annotava scrupolosamente nei suoi quaderni le
modalità per entrare in contatto e capire gli altri, dall’interno,
approfonditamente, come ha precisato il padre, Claudio Regeni. Il suo
voler sviluppare competenze empatico-relazionali che potessero
sostenere le altre capacità, di tipo accademico, non sono state
comprese: «Era andato oltre e l’Egitto non era pronto. Non è una
questione di lingua, ma di relazioni» (parole di Paola Deffendi).
Per questo la signora Deffendi definisce il figlio un ragazzo del
futuro.
Credo
che quest’incomprensione si basi proprio su dinamiche corporali
opposte: disintegrazione, da una parte, incorporazione, e quindi
arricchimento e apertura all’alterità, dall’altra. La comunanza
fisica di Giulio con le persone con le quali interloquiva è la
stessa che anima la battaglia intrapresa dai genitori: le mamme
egiziane si riconoscono in Paola, la lotta è comune, i corpi sono
tesi alla condivisione del dolore patito e alla ricerca tenace, non
rabbiosa, come ha precisato la legale della famiglia Regeni,
Alessandra Ballerini, verso la verità.
La
logica disgregativa è alla base dello stato brasiliano, secondo la
durissima arringa della giornalista Eliane Brum. Citando un suo
articolo per El Pais,
che è stato definito dal moderatore Alberto Riva come uno degli
articoli più belli mai scritti, in quanto si occupa di temi sociali
senza che vi sia un’indulgenza narcisista nei confronti dell’autore
dell’articolo, Eliane traccia una linea genealogica tra il Brasile
contemporaneo e la distruzione colonialista portoghese. Tutti temi
che hanno al centro il possesso distruttivo e auto-distruttivo
dell’Amazzonia. Un nesso che sarà ulteriormente più chiaro,
credo, quando mi occuperò di Naomi Klein. Ma per il momento lasciamo
che siano le parole di Eliane a parlare.
Il
Brasile è fondato sulla distruzione dei corpi ed è alla luce di
questo passato che ci troviamo a che fare. In questo momento dobbiamo
affrontare queste contraddizioni. Se si promette che si può fare,
come è possibile questo? Con questa produzione di ricchezza non
vengono creati dei cittadini, ma dei consumatori. Non è un paese
accogliente, è un paese del genocidio. Va benissimo aver perso
l’identità, perché i conflitti vanno affrontati. Questo governo
ha riprodotto uno sguardo dell’Amazzonia come uno sguardo militare,
come un corpo da sfruttare dove le persone non sono persone. Sappiamo
qual’è il significato della parola profugo, che uso in senso
sarcastico per far capire il sentimento che passa. Tutto quello che è
stato dimostrato è una violazione dei diritti umani, milioni di
persone che hanno perso le loro terre. L’unica cosa che gli resta è
il loro corpo.
Il
corpo quindi come oggetto di depredazione e centro nevralgico
dell’annientamento delle persone, ma anche unico strumento di
resistenza che resta in dotazione a noi essere umani, forme
diversamente altre di animali. È proprio la facilità con la quale
si passa da cultura, ciò che è curato, a caos, anarchia, istinti,
cioè che non è colto, coltivato—almeno secondo la vulgata
umanista che si sta tentando, ancora timidamente, di porre a
critica—che necessita, agli occhi
delle persone, attraverso le quali i populismi vengono alimentati e
trovano una loro ragion d’essere, un’opera attiva e violenta di
controllo.
My
definition of populism is the sense of a division between people and
the “casta” or two entities confronting with each other,
abolishing the very notion of democracy. It’s very ideologic. Some
populisms have very thick ideology. Behind Trump there is no
ideology, Marie Le Pen has one, very complex. I think the essential
reason is people watching TV, seeing flood of people escaping from
the Middle East. There is a sense of loss of control. The right
populism has understood this anxiety and gave a sense of control. The
problem is that left populism does not offer a creative sense,
everybody is unprepared. The only solution would be European
(Jonathan Freedland).
La
necessità di un’irrigimentazione dei propri corpi—paradossale,
ma vero. Si è all’interno di un delicatissimo equilibrio, dove la
libertà di disporre del proprio corpo fa a pugni con un bisogno di
strutture prive di ambiguità, proprio ciò che il corpo non è—porta
verso quella forza (auto-)distruttiva vista prima: una fascinazione,
come l’ha definita l’orientalista Olivier Roy, per il nichilismo,
la morte e l’estetica della violenza che, in qualche modo, colmano
il vuoto ideologico lasciato dalla politica odierna più incentrata
su una matrice economica (Žižek probabilmente sosterrebbe il
contrario: un processo di culturalizzazione forzata che dovrebbe
essere sostituito da uno di tipo economico-sociale). Il terrorista di
vocazione, secondo il sociologo Alessandro Orsini—per il quale ho
qualche perplessità deontologica (leggete questo esempio),
oltre che scientifica (la comparazione, per quanto utile e
affascinante, deve essere fatta con le dovute cautele, almeno secondo
il mio parere), ma che, comunque, non intacca l’interesse delle sue
teorie–vuole appagare un bisogno spirituale. Orsini parla proprio
di una trasformazione antropologica dei terroristi e conia, rispetto
a questo concetto, il modello sociologico dria, che identifica le
fasi del processo di radicalizzazione. Esse sono sostanzialmente tre:
la disintegrazione dell’identità sociale, ovvero una crisi
esistenziale che porta a cercare una soluzione al di fuori di sé
stessi, in una ideologia che trasmette un potere salvifico
disciplinante; l’alienazione dal mondo circostante; il processo di
disumanizzazione dell’altro.
Come
direbbe l’antropologo Michael Jackson (e non è frutto della mia
ironia, ma esiste davvero un omonimo che ha ben poco a che fare con
il cantante), il corpo è quindi soggetto a due strade: attore e
“acted upon”, due facce della stessa medaglia che spesso si
confondono, dal desiderio di annientare e controllare gli altri a
quello di annichilimento e disciplinamento di noi stessi. Non
possiamo scappare dalla nostra dimensione materiale e incontri come
quello di Internazionale rappresentano un monito per un
generale ripensamento di ciò che noi consideriamo umano.
Commenti
Posta un commento