Below the Breadline: I am Daniel Blake
Mi
piacerebbe vedere le facce degli spettatori nella sala del cinema.
Percepire le loro traiettorie, le loro contrazioni muscolari
involontarie, sintomi di uno shock che coglie chiunque vada in
Inghilterra per la prima volta, Mr Bean e Beatles, mailbox e
fish’n’chips, la regina e le sue velette in una valigia mentale.
Certo, ci sono anche i Sex Pistols e i Clash, ma si pensa sempre ad
un punk gaudente, carnevalesco, no? Gli inglesi possono permettersi
di far finta di essere degli straccioni, si pensa. E cosa succede se
quel far finta in realtà non ha nulla dell’artificio?
Credo
che un film come I, Daniel Blake resterà una pietra di
paragone per capire le ragioni di quella violenza di classe che si è
potuto intuire—per chi resta nel Belpaese, si intende—con i
risultati della Brexit. Persone che perdono la propria occupazione da
un giorno all’altro, trovandosi catapultati in una macchina
infernale, detta anche burocrazia. La stessa burocrazia che voleva
una certificazione medica della mia scoliosi per procedere con
l’attribuzione di un armadietto o, se non altro, un’accelerazione
del processo di acquisizione dello stesso nei locali dell’università.
Correva l’anno accademico 2012/2013. Per capire una nazione si deve
spiare dentro i suoi apparati repressivi o istituzioni sociali
totali, come si direbbe in gergo accademico, come le carceri, gli
ospedali, gli uffici di collocamento. Ma di solito quest’indagine
diviene possibile solo quando ti capita qualcosa che giustifica la
frequentazione di questi luoghi, quindi forse non è esattamente
auspicabile. Il disagio, fisico, psichico, sociale nel Regno Unito
deve essere smorzato, passato per perifrasi: parlare in senso
letterale è forse la cosa più grave che possa capitare. Gli
scheletri negli armadi ci sono, ma si continua come se niente fosse:
keep calm and carry on, no?
Ken
Loach rompe del tutto questa regola non scritta: si va al cuore, al
fegato e ai polmoni di questo sporco che si cerca disperatamente di
cammuffare. Chiamiamo le cose con il loro nome. People are starving.
Madri che rinunciano alla loro cena per poter sfamare i propri figli,
mentendo di fronte ai crampi allo stomaco, ai
giramenti di testa. Non ho fame. Oppure ho già mangiato prima:
This
morning, small boy had one of the last Weetabix, mashed with water,
with a glass of tap water to wash it down with. ‘Where’s Mummys
breakfast?’ he asks, big blue eyes and two year old concern. I tell
him I’m not hungry, but the rumblings of my stomach call me a liar.
But these are the things that we do (Jack
Monroe, mamma, blogger e giornalista, post scritto quando era
disoccupata, Hunger
Hurts, Luglio
2012).
Piccoli
espedienti, ingegneria domestica elementare ma che ti permette di
andare avanti: buste di plastica per gli imballaggi alle finestre per
non sentire il freddo, perché no, le bollette del gas e del
riscaldamento non possiamo pagarle. Non si sa
ancora
per quanto resisteremo, ma per oggi sì. Everything is OK.
Because
that’s the trouble, when you have holes in your socks and holes in
your jeans, and your collar bones are jutting out of the two jumpers
you wear to keep warm – you tell everyone that everything is
okay.Because you think if you admit to skipping meals, to feeding
your child the same cold pasta with tomatoes for four nights in a
row, you worry that you might lose him, that he might be taken into
care. And in the cold, in the despair and desolation, your son is the
only thing that stops you stepping off the flyover you walk over
every day. So you say you’re fine (discorso di Jack Monroe alla
House of Parliament, 3 Giugno 2013).
I,
Daniel Blake è qualcosa di più
di un film, si sfocia nel documentario e nel pamphlet,
qualcosa di molto simile a
quanto letto nella letteratura inglese da fine Settecento in poi. Un
Charles Dickens dei nostri tempi, dove l’Uriah
Heep della situazione è un intero sistema, ingranaggio che potrebbe
ricordare, come logica, quella del lager nazista. Infatti si procede
per linee guida, si obbedisce a regole, non importa quanto queste
possano svuotare le pance di bambini colpevoli solo di essere nati o
di soggetti rigettati in quanto, in qualche modo, giudicati come
inabili. Daniel Blake e Katie Morgan cercano di ritagliarsi un loro
posto nelle maglie di questa gigantesca camicia di forza, arrancando
in un
apparato di giustizia lacunoso quando non si hanno capitali salvati
in banca.
Loach
non si è accontentato di una storia verosimile. Ha voluto raccontare
la prospettiva dell’Inghilterra povera e dimenticata dai più dal
di dentro, facendo ricerche sul campo, entrando a contatto con le
famose food bank,
uniche istituzioni caritatevoli in un panorama nel quale l’assistenza
sociale latita e coincide, il più delle volte, con privatizzazioni,
uniche ancore di salvezza rispetto a pasti per quattro, cinque bocche
basati su risparmi di cinque sterline per una settimana. Non stupisce
pensare che una di loro, Jack Monroe, abbia poi dedicato il suo blog
alla cucina: non avete idea di quanto si sprechi in cibo, quanto
i prezzi sugli alimenti siano lo specchio di una logica capitalista
che ha ben poco a che fare con la sua alleged funzione primaria,
ovvero sfamare. Devono essere pochi supereroi mascherati o un’intera
classe politica, un intero sistema-mondo a cambiare le cose? Siamo
tutti Daniel Blake in potenza. E questo dovrebbe essere sufficiente
per creare pressioni sui governanti, una reale rappresentanza
politica democratica, non una macchina avulsa dalla gente.
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