Zombie: Giulio Regeni e la morsa egiziana
L’articolo
della scorsa settimana ha segnato una cesura rispetto al tono
generale di questo blog. La politica, fino ad ora tenuta a debita
distanza rispetto ai miei scritti, viene ora toccata, anche se sempre
con un’ottica scientifica più che partigiana-partitica. Non mi
spaventa l’etichetta di engagé,
penso che si possa e debba far politica e che sia fondamentalmente da
irresponsabili trascurare gli aspetti politici delle questioni. Credo
anche, però, che la scena politica abbia anche bisogno di analisi,
di ragionamenti che vadano al di là delle proprie simpatie politiche
e che permettano uno sguardo d’insieme rispetto alle dinamiche che
interessano il mondo in cui viviamo. Prossimamente, dedicherò un
articolo critico su Naomi Klein e l’evoluzione del suo pensiero, da
No
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all’ultimo interessamento rispetto alle tematiche ambientali.
L’articolo
tuttavia comparirà nel giro di qualche mese, volendomi documentare
nel dettaglio rispetto ai lavori della Klein. Nel frattempo, vorrei
dedicare la mia produzione settimanale alle primavere arabe da più
prospettive possibili: rappresentazioni artistiche, dibattito attuale
e cronaca.
Come
ha giustamente rilevato Lorenzo Dechlich, la triste vicenda di Giulio
Regeni non può essere compresa al di fuori della deriva delle
sollevazioni popolari di piazza Tahrir, ovvero il regime sanguinario
e paranoico di al-Sisi. Le
torture inflitte al dottorando fanno parte del dispositivo di terrore
politico ordito dai militari, tradizionalmente parte dello scacchiere
geopolitico egiziano insieme ai Fratelli Musulmani. La titubanza, da
parte degli statisti occidentali, rispetto ad una presa di posizione
contraria e di opposizione al regime di al-Sisi, così come nel caso
della guerra civile in Siria, è proprio giustificata dallo
spauracchio rappresentato dall’islamismo politico dei Fratelli
Musulmani: in
nome di una presunta “laicità”, le continue violazioni dei
diritti umani vengono passate sotto silenzio. Questa retorica
anti-islamista è la stessa utilizzata dal regime di al-Sisi per
“ricattare” l’Occidente: avete bisogno di noi, altrimenti chi
garantirà un equilibrio nella zona mediorentale?
È
proprio
questa logica binaria che i
giovani di piazza Tahrir avrebbero voluto scardinare. Come
afferma senza mezzi termini il giovane scrittore Ahmed Nagi, ora
nelle carceri per il suo libro Vita:
istruzioni per l’uso
(uscito pochi giorni fa per la casa editrice Il
Sirente
e che sicuramente recensirò qui), il
senso della rivolta era anche e soprattutto un fermento culturale
rispetto ad una classe dirigente che vuole appiattire le differenze e
le voci di dissenso uniformandole alla religione o ad una supposta
morale:
Gli zombi erano dappertutto. C’erano il generale zombi, lo sceicco zombi, il presidente zombi, l’imprenditore zombi, il partito di governo zombi, l’opposizione zombi, l’islamista moderato zombi e l’islamista radicale zombi. Quando sei giovane ogni zombi ti propone di diventare anche tu uno zombi e di lasciar perdere l’idealismo della morale e dei sogni. Non avevamo scelta, eravamo costretti a vivere con loro, parlargli, mostrarci affettuosi. A volte, per precauzione, elogiarli, diventare discreti e camminare tra loro, con le gambe rigide, le braccia tese e lo sguardo vuoto. Quando rendevamo chiaro il nostro disaccordo o rifiutavamo di ingozzarci con quelle carogne marce che sono le idee di patria e di religione, gli zombi ci rispondevano con la tortura, l’isolamento forzato o l’emarginazione (Ahmed Nagi "Addio alla gioventù in Egitto", Internazionale).
Questa impossibilità a vivere è la stessa che impedisce la libertà di ricerca da parte di accademici egiziani e stranieri, in quest’ultimo caso un’ostruzione ulteriormente alimentata dalla xenofobia strisciante del regime di al-Sisi: chiunque si occupi di tematiche sociali o vagamente politiche, come documentari, inchieste giornalistiche, osservazione partecipante dei sindacati, come nel caso di Giulio, diventa un pericoloso nemico, una spia da epurare. Ironia della sorte, questa logica complottistica e paranoica è la medesima che ha agitato il dibattito, torbidissimo, italiano. Senza risparmiare testate autorevoli come Repubblica, Dechlich ha mostrato in modo inequivocabile la povertà e grettezza del giornalismo italiano, che si ammanta di sete di giustizia e libertà di espressione proprio nel momento in cui fa il gioco del dittatore, insabbiando quella logica binaria vista prima e i cospicui interessi economici di varie aziende italiane e del governo italiano stesso. Il silenzio di Renzi rispetto al regime di al-Sisi, il ritardo nelle ricerche di Giulio, la reazione anch’essa tardiva rispetto al ritrovamento del corpo martoriato, tutto indica, insomma, che la verità sul caso Regeni è cristallina, auto-evidente. Un delitto politico che viene delegittimato dei suoi aspetti politici proprio allo scopo di perpetrare egoismi economici e di potere.
nei paesi di provenienza di quei migranti, giocano ancora da protagonisti vecchi e nuovi tiranni "laici" e "nazionalisti" che soprattutto i giovani, nel 2011, hanno provato—spesso senza successo—a cancellare dalla storia. I molestatori a piazza Tahrir nei giorni della rivoluzione egiziana—presi da molti come metro di paragone di video su Colonia, riciclarono quelli di Piazza Tahrir)–li mandava il regime. Quel tipo di molestie, che alcuni davano per scontato fossero "islamiche" e altri legavano al terrorismo islamico, avevano un'altra matrice e continuavano nelle stazioni di polizia, con i famigerati "test di verginità". L'altra verità, e cioè che tiranni come Mubarak, Gheddafi e Assad i jihadisti li hanno tirati fuori di prigione ai primi cenni di rivolta di popolo, giocandosi con diverse fortune, per l'ennesima volta, la carta del caos islamista, non era "interessante". Ma ora, davanti all'Italia, c'è la storia di un dottorando italiano che è stato brutalmente torturato e ucciso per aver svolto le sue ricerche sui fuochi mai spenti e sulle luci accese in seguito a quelle rivolte della dignità (Lorenzo Declich, Giulio Regeni: le verità ignorate. La dittatura di al-Sisi e i rapporti tra l'Italia ed Egitto).
Fare
luce sui movimenti politici nati attorno alle primavere arabe,
dunque, dovrebbe essere il compito di quanti sono interessati alla
giustizia del caso Regeni: Giulio non era una spia al soldo dei
servizi segreti britannici, come qualche testata vorrebbe sostenere
in modo imbarazzante, era un ricercatore come tanti, caduto in un
gioco più grande di lui, una morsa nella quale cadono altrettanti
giovani egiziani che però non hanno ottenuto la stessa copertura
mediatica. Verità per Giulio e per tutto l’Egitto!
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