Anilda Ibrahimi, L'amore e gli stracci del tempo

Zlatan. In serbo significa prezioso, oro. Un unico figlio, tanto aspettato, sia prima della sua nascita, sia, soprattutto, dopo. Non solo dai genitori, chiusi nella duplice morsa di serbi che non appoggiano l'odio degli altri serbi nei confronti degli albanesi e che si devono, al tempo stesso, difendere dall'odio degli albanesi, ma anche dalla famiglia albanese che lo ha accompagnato durante la sua infanzia. E, naturalmente, lei, Ajkuna. La sensazione di un tempo che si rincorre, che si morde la coda, che non è mai a tempo, sempre o troppo in ritardo o troppo in anticipo, che sfiora, ma non riesce a ricongiungere. La preziosità dei nomi deriva anche da questo: aneliti, promesse, idealizzazioni.
Questo romanzo è scandito dalle idealizzazioni. Un Tito rimpianto perché, in qualche modo, faceva passare in sordina questi odi, questo riferirsi ad un passato mitico, atavico, quello della Battaglia della Piana dei Corvi. Popoli che prima condividevano la passione per gli stessi poeti, gli stessi versi, gli stessi ideali, ridotti a guardarsi in cagnesco, con una crescente paura, quell'esigenza di mettere sempre i distinguo: "il serbo", "l'albanese", nessun nome proprio. L'idealizzazione di Ajkuna, di una paternità inventata, o forse no, la volontà di occultare una certa parte del passato, che torna a galla in momenti improbabili con persone improbabili.
Un'idealizzazione che si accompagna alla volontà perentoria, rigida, senza deroghe, di adempiere alle promesse adempiute. Anche se c'è una guerra di mezzo. Anche se l'amore e le relazioni umane sbocciano, si intromettono, deformano il percorso che ci si era prefissati una sera spensierata da adolescenti brilli. Bambini che reclamano un bisogno di radici, in realtà presente nei genitori ed attribuito ai bambini come giustificazione delle proprie azioni: "noi siamo i nostri padri e le nostre madri che continuano a vivere in noi. Nelle nostra ossa sentiamo il richiamo della loro voce che attraversa la vita, e a volte anche la morte, e ci dice che non possiamo scappare da nessuna parte. Ci dice che tutte le strade sono chiuse dal momento che hai visto tuo figlio in faccia. E che esistono solo due tempi: il tempo della semina e quello della raccolta. E quando hai fatto queste due cose, il ciclo è finito. Allora cercherai con tutte le forze di fare l'unica cosa ancora possibile: trasferire i tuoi ricordi in colui che diventerà la tua memoria. E non importa se non hai delle ginocchia sbucciate da raccontare, le inventerai. Cercherai di trasmettere la tua nostalgia a tuo figlio, capendo che un giorno tu stesso sarai la sua nostalgia".


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