The End of the Tour, James Posoldt (2015)

Guardando The End of the Tour, spinta dal mio amore incondizionato per la scrittura di David Foster Wallace (anche se questa passione non sono riuscita a coltivarla come avrei voluto), mi sono chiesta dove sta il confine tra intimità e invasione della privacy. Alla fine tutta la logica del film ruota attorno a questa problematica delicata. David lo dice chiaramente al giornalista di Rolling Stones: non ci conosciamo, non so se piaccio a te e tu non sai se piaci a me. Come poter costruire una base di fiducia con questa incognita? I nodi vengono al pettine quasi subito: il giornalista è schiacciato dal senso di dovere, da una parte, che lo spingerebbe a porre questioni spinose sui trascorsi passati di David con la droga, e dal pudore, così come dal rispetto nei confronti dell'intervistato, dall'altra.
È un problema che è particolarmente sentito da una sensibilità come quella di Foster Wallace, ma, tuttavia, è qualcosa che ci tocca tutti da vicino. Se pensiamo ai divorzi e alle liti tra i genitori, così come abusi di ogni tipo tra le mura domestiche, in linea teorica anche le persone con le quali condividiamo il nostro spazio vitale e dalle quali dovremmo sentirci protetti potrebbero rivelarsi dei completi estranei. Un lato oscuro di noi stessi che non vogliamo condividere per nessun motivo con gli altri, magari non necessariamente perché rivela aspetti negativi della nostra personalità, intendiamoci. Semplicemente, vogliamo essere completamente noi stessi, ed è difficile poterlo fare sapendo che dall'altra parte c'è un altro che potrebbe non pensarla al nostro stesso modo e giudicarci. Oppure perché, egoisticamente, vogliamo vivere quel nostro antro segreto totalmente, senza doverci preoccupare di interagire con qualcun altro. 
L'insidia, però, è quella di dover affrontare in toto le nostre paure, i nostri fantasmi e tarli, come si evince molto bene dal film: David è un uomo molto solo, passati i trent'anni e senza una relazione degna di questo nome, se si escludono i due cani neri immensi che gli fanno compagnia. Un racconto molto forte apparso su Internazionale di questa settimana traccia un paragone tra lo psichiatra e lo scrittore: entrambi, proprio perché vengono a contatto con le dinamiche più oscure della psiche umana, vivono le proprie personali difficoltà amplificate, in più si devono sobbarcare, per motivi deontologici, ovviamente, di instaurare un rapporto di fiducia con il curante/lettore. Di qui bisogna cercare il più possibile di mantenere una distanza, ma questo implica un venire meno dell'intimità, almeno da parte dello scrittore/psichiatra: un ciarlatano dell'intimità a fin di bene, si direbbe in altre parole. Questa dinamica, ovvero capire che tipo di distanza tenere con gli altri, è un punto limite delle relazioni umane, che vengono in questo modo passate continuamente e prima o poi, volenti o nolenti, al setaccio. Tutti siamo David Foster Wallace, nessuno escluso.

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