Tempo di bilanci dottorali

Concludendo il percorso di studi del dottorato di ricerca (detto universalmente Ph.D che non è l'indicatore della misura di acidità di una sostanza, ma Doctor of Philosophy. Si è scelta la filosofia nella sua accezione antica-classicista di sapienza per indicare il più alto grado di istruzione), mi sono chiesta che novità/cambiamenti ha apportato questo cammino, spesso tortuoso, a volte molto soddisfacente, altre volte eterno, alla mia vita. Non ci sono priorità, classifiche o altro, bensì un'associazione d'idee a nastro, forse perché dopo tanto pianificare e pazientare voglio godermi le cose per come accadono, farmi trascinare dalla corrente. Ecco qui, dunque.
  1. La miopia. Forse perché è arrivata senza farsi preannunciare, così tardi rispetto alle altre persone miopi che conosco. Da bambina, e non esagero, riuscivo a leggere le destinazioni e i numeri degli autobus da molti metri di distanza, la mia pediatra aveva diagnosticato che avevo addirittura un grado in più rispetto al punteggio pieno del 10. Ho fatto molto uso degli occhi: mi piace guardare i particolari, perdermi nelle trame, nei colori, bere tonnellate di pagine, scrivere, che sia su schermo o su carta. Il dottorato ha potenziato questo bisogno di guardare portandolo agli estremi. E la natura, in modo equo, si riprende quest'esubero. Ho sempre trovato le persone con gli occhiali affascinanti. Ma tra il vedere gli occhiali addosso a qualcuno e vederseli, sentirseli addosso c'è un'enorme differenza, un'esperienza emica, nel senso letterale, molto strana e alla quale devo ancora abituarmi del tutto. Come se avessi un gigantesco aquario davanti al quale esaminare la vita. Bello e bizzarro al tempo stesso.E forse un segnale che il mio corpo deve riscoprire gli altri sensi, potenziarli così come ho fatto con la vista;
  2. La nostalgia. Ho letto un articoletto di Jumpa Lahiri sulla sua nostalgia per Roma. Secondo lei, l'avere nostalgia è parte di un processo di attaccamento e radicamento in un paese straniero, quasi quanto scrivere nella lingua di quel paese. Qualcosa che mi prende tutte le volte che vedo delle finestre a bovindo, delle daffoldils, una sfumatura di verde. Il desiderio di accarezzare l'erba con gli occhi. La passione insana per tazze, té, bollitori. Un modo di parlare che borbotta, che sembra sempre scusarsi. Certo, c'è stata la fatica di adattarsi a quel paese, alle sue modalità, ai suoi difetti (perché ci sono, per quanto gli italiani, con la loro esterofilia, facciano fatica a crederci). Guardare una serie tv britannica unicamente per ripensare a quei luoghi dove ho vissuto un periodo così cruciale della mia vita, sia personale che professionale. La voglia di ripartire, viaggiare sola, cercare quella solitudine creativa che mi riempiva i fine settimana, quando non dovevo studiare, scrivere, produrre. Sognare una nuova tana, nuovi ritagli degli illustratori preferiti da appendere alle pareti, nuovi fiori da cogliere per mettere alla finestra, nuove librerie da riempire. Piccoli rituali personali prima di andare a letto che avevano il loro significato solo nella mia solitudine. Nostalgia. Nostalgia di tutto questo, del tempo solo per me, in un egoismo sano ed inoffensivo;
  3. Le ubriacature in biblioteca. Il desiderio di abbracciare quante più letture possibili. Sentire collegamenti brillanti nella propria testa, circuiti magici che solo tu sapevi spiegare e che, nel parlare con altri, colleghi ed amici, perdevano parte del loro fascino, come farfalle che vengono toccate. Apnee libresche dove il tempo aveva un suo corso, tipico e indescrivibile;
  4. Un senso di umiltà. Non che prima fossi superba, tutt'altro. Però, in qualche modo, fare un percorso del genere ti mette costantemente di fronte ai tuoi limiti. Suonerà come una frase fatta, ma non lo è: conoscendo i propri limiti si arrivano a capire anche i propri punti di forza. Inutile sforzarsi di essere ciò che non si è. Ho capito che insegnare non fa per me. E probabilmente, senza il dottorato, non avrei mai capito che sono portata per la ricerca pura e basta. Un limite, certo, ma anche una risorsa, perché ora so a cosa devo puntare in futuro per sentirmi realizzata. Senza quel lavoro maniacale e sfiancante che è la scrittura accademica, in particolare la stesura della tesi, non avrei mai capito che nella scrivere, oltre alla passione e all'intuizione bruciante, c'è anche un tempo paziente, lungo, ma alla fine clemente, che ti permette di migliorarti sempre un po' di più rispetto alla partenza. Ho imparato ad ascoltarmi, cosa non facile in una persona irrequieta ed ansiosa come sono. Una capacità che devo esclusivamente al dottorato;
  5. Non pensare più ai miei gusti come qualcosa di fisso. Ho scoperto che mi interessa la fantascienza, che il caffé non lo disdegno più. Non so se sia per la lontananza dalla propria famiglia o per il fatto che il dottorato mi ha fatto spaziare su vari fronti, ma ora ricerco la diversità e non vedo come comune neanche le cose di tutti i giorni.
Un'esperienza densa, quella del dottorato. Molto probabilmente molte cose mi si chiariranno con il tempo, ripensandoci in retrospettiva. Un'esperienza che vale la pena di percorrere, anche solo per mettersi alla prova, ma che, dato l'alto tasso di energie e di rinunce che bisogna fare, non è un'esperienza ripetibile. Accade una volta sola nella vita. Ed è giusto così.
Claire Basler's studio

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