Francofonia, Sokurov (2014)



«I musei si prendono gioco della realtà che sta loro attorno» dichiara ad un certo punto la voce narrante. In questo rarefarsi della realtà per suggellare la ricerca della bellezza, della cultura o identità Occidentale, Sokurov lancia una provocazione. Con Napoleone e la Marianna a piede libero per il Louvre, presi nei loro monologhi ripetitivi e stolti, a loro volta allo scopo di auto-trincerarsi all'interno di bastioni propagandistici dell'"essenza Europea". La realtà è ben diversa. Dove sta il confine tra la produzione di un miracolo come quel corpo umano assiro-babilonese rinvenuto negli anni Settanta e la razzia del potere? Il regista, voce narrante e sagoma nella penombra di uno studio assiepato di libri e con lo schermo fermo su una nave che trasporterebbe reperti del Louvre condannandoli all'inghiottimento generale del mare, è volutamente ambiguo. La ricchezza del Louvre si basa principalmente sui trofei di guerra napoleonici, su un intervento coloniale di depauperamento del patrimonio culturale altrui allo scopo di celebrare "la propria civiltà". I paletti tra la "purezza" di una civiltà rispetto ad un'altra vengono rilevati in un piccolo motto polemico e (penso volutamente) anacronistico: chi ha mai pensato all'incolumità dell'Ermitage durante la rivoluzione bolscevica? La mente va, chiaramente, alla città di Palmira assediata e distrutta dalle truppe di Daesh, all'archeologo Khaled Asaad e ad altre situazioni che non hanno ricevuto adeguata attenzione mediatica. Il passaggio dall'aulico al politico sta tutto nello sguardo,
Bourdieu stesso ce lo ricordato: lo sguardo è il luogo in cui si incontrano il corpo vissuto, che elabora la percezione, e le pratiche che rendono questo corpo attore sociale e che fanno della relazione corpo-contesto il teatro dell'azione politica. Faeta, Le ragioni dello sguardo

Quale sarebbe la potenza dell'arte, secondo Sokurov? Il museo diventa il luogo del proibito, della tentazione di toccare gli oggetti esposti, e infatti varie volte si ha il rumore dell'allarme come sottofondo. In un'evocativa sequenza, si vede una mano (potrebbe essere di chiunque) intenta a sfiorare le dita di marmo di una statua che imbraccia un arco da guerra. La luce colpisce le due mani, l'una di carne, l'altra di pietra, facendo scivolare dei granelli di pulviscolo. In quell'attimo, si ha come l'impressione di assaporare la stessa vertigine di proibito. Sokurov si chiede dello statuto del simulacro, quel suo andare da una frontiera all'altra della vita e della morte. Vedere, toccare, impossessarsi, potere, tutto in un unico istante.
Manipolare il simulacro significa trasferire, nella concreta dimensione sociale e politica, il suo potere visivo. La manipolazione, ha il compito di predisporre all'uso politico dei simulacri e di organizzare il tempo, lo spazio, i modi della visione. A ben riflettere, tutte le operazioni di manipolazione, legate al tatto, sono in effetti realizzate in rapporto al senso della vista e i simulacri vivono una sorta di esistenza ossimorica, sospesa tra i sensi, come ha rilevato la riflessione fenomenologica, e come ha ribadito, Walter J. Ong, tra loro in opposizione, l'uno distanziante e separativo, l'altro approssimante e congiuntivo. E le pratiche rituali che intorno al simulacro si costituiscono, transitano da una fase propedeutica di intimità e contatto a un'altra di estraneità e separazione. Faeta, Le ragioni dello sguardo

Questo l'intento di Sokurov. Si esce, però, affaticati, in qualche modo scossi dalla provocazione. La prima parte, con voli d'aquila sul paesaggio e i tetti di Parigi, i giri di frase evocativi, il collage tra filmati di repertorio di nazisti nella Parigi occupata, tutto sembra una bellissima trasposizione cinematografica di certi esperimenti letterari fortunatissimi come i Wu Ming. All'inizio, Napoleone e la Marianna, con la loro portata pop a metà strada con il teatro sperimentale, sono tollerabili e mi fanno pensare all'ultima fatica di Manuele Fior, dove i personaggi ritratti nelle tele del Musée d'Orsay prendono vita e fanno fare una visita virtuale nelle sale del museo al lettore. Anche l'espediente inventato della nave con i bauli strapieni di reperti sembra reggere la ritmica del film. Qualcosa, tuttavia, si inceppa e la seconda metà del film suona lenta, affettata (specie nella voce narrante e nel suo modo paternalistico nei confronti del pubblico) e puramente polemica per la polemica in sé. Interessante l'idea di mischiare i personaggi della narrazione, il direttore del Louvre e il gerarca della Kunstschutz, con i bambini della Parigi contemporanea, intenti a giocare nel parco del Louvre all'uscita da scuola. Tuttavia, l'impressione generale è che il regista abbia sprecato una grande opportunità, in termini di espressione artistica. Forse perché una narrazione così densa, mentre attraverso la scrittura rivelerebbe punte di magnificenza e brillantezza, non rende giustizia rispetto alla cinepresa, che, per forza di cose, impone la propria visione delle cose allo spettatore, il quale non può riempire le evocazioni suscitate con la propria immaginazione. Forse perché l'altra alternativa possibile sarebbe stata ridurre il lavoro alla metà del tempo nel quale, invece, pare dilungarsi perdendo così di efficacia.

Indubbiamente, è un film che non lascia indifferenti e che si vede che è il risultato di anni di lavoro e di ricerca. Non certo come pensavano gli spettatori dietro di me, impazienti dopo una mezz'ora e pronti a stroncare la fatica di Sokurov con un "non ci ha messo molto a fare il film" e/o "è un documentario, non un film". La provocazione c'è stata e un po' a colto nel segno la sensibilità miope e ristretta del pubblico natalizio. Sicuramente, materiale di riflessione per gli addetti ai lavori.

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