Personale recensione di "Ten", Abbas Kiarostami (2002)

Avevo già visto un film di Kiarostami (Il sapore della ciliegia) nel quale il protagonista vagava nella periferia di Teheran perché in cerca di un motivo per non suicidarsi. Allora non apprezzai il film e l'elemento della macchina era per me un qualcosa di ossessivo, di soffocante, di prevaricante (e probabilmente era proprio questo che voleva far passare Kiarostami, cioè la claustrofobia di chi è disperato, di chi non vede una possibile via d'uscita che non sia la propria autodistruzione), ma stavolta la macchina è qualcosa di diverso. La macchina va al di là del suo essere veicolo.
La macchina diventa il salotto privato, il piccolo e personale tempio di una giovane donna iraniana alle prese con la sua voglia di dimostrare, sia a sé stessa che agli altri, di essere un essere (chiedo venia per il gioco di parole) umano autodeterminato, libero da condizionamenti sociali, culturali e di genere in un paese, l'Iran, in cui le donne devono continuamente negoziare le loro spinte esplorative del mondo con la religione e con un regime politico a carattere, integralmente, religioso.
Certamente, qualcuno potrebbe sbuffare di fronte a questa resa sul filo dello stereotipo dell'Iran e della condizione femminile nell'Islam. Associare chador, hijab con prevaricazione, integralismo, terrorismo è un'abitudine (per definirla in termini 'leggeri') ormai consunta nell'immaginario collettivo occidentale ed è su queste convinzioni che l'islamofobia fa leva per reclutare nuovi adepti.
Ma, attenzione, bisogna andare al di là delle apparenze. Le conversazioni e le interlocutrici/interlocutori (l'unico personaggio maschile è il figlio della protagonista, l'ex marito resta sempre fuori dai finestrini dell'auto, quasi sempre è dentro alla sua, di auto) cambiano sensibilmente. Si ha l'Islam abitudinario ed affettivo di un'anziana signora, quello pedagogico e post-secolare della sorella della protagonista. La macchina da presa scava sotto i veli delle avventrici dell'auto. Mostra cambiamenti, come il capo completamente rasato di una ragazza che sta cercando di rielaborare il distacco dal proprio amato. Mostra il volto accogliente ed al tempo stesso colmo di pietà della protagonista mentre ascolta l'esperienza di una prostituta, scoperchiando i vasi del desiderio maschile, di quello che quest'ultimo comporta nei vissuti di una giovane donna, la voce roca, quasi come un segno di una vita rotta, ingarbugliata dalla mercificazione del proprio corpo.
Alla fine, lo spettatore vorrebbe egli stesso far parte  di quel salotto mobile. Ed una macchina non è mai più stata attraente come qui.

[scritto ascoltando una conferenza di Tim Ingold]


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