Bravi

A volte, nel passeggiare in mezzo a frotte di universitari, ridanciani o meno, grassi o magri, flaccidi o atletici, da un'università piuttosto che un'altra (sia italiane che inglesi), con il sorriso o con il muso, benestanti e/o abbienti o modesti e/o umili, in mano nella mano con un lui o con una lei, che siano lui-lui, lei-lei o lei-lui, da soli, con gli occhiali spessi quattro dita o con le lenti a contatto fresche dell'ultima tecnologia, eccentrici o conservatori, mi sovvengono degli interrogativi. In particolare mi chiedo se io, reduce da ormai anni e anni di università, tanto che lo stesso concetto di università mi si può appiccicare tranquillamente sulla fronte, non sia stata plasmata o mi sia voluta plasmare di modo che le mie particolari ossessioni, nevrosi o desideri siano orientati dalla scelta universitaria. Certo, tutto questo dall'esterno suona tranquillamente come una silly question, qualcosa di scontato ed ovvio (io conosco l'espressione italiana 'E' come la scoperta dell'acqua calda', ma non in che termini essa sia diffusa). Ma farla risuonare dentro di me, rapportarla a me e alle vite di coloro che hanno fatto scelte simili non produce melodie scontate. Anzi, ne resto sempre un po' spiazzata. Il timore di non avere afferrato esattamente 'il senso della vita', di essermi messa dei possibili ostacoli nel conoscermi come essere umano e nel conoscere tutto ciò che è intorno a me, diventa talvolta palpabile. Se poi leggo articoli nei quali si racconta che a Cambidge ci si appresta a recintare il Cam per far fronte alla crescita esponenziale di suicidi tra gli studenti, Cambridge, un piccolo centro dell'Inghilterra est, colmo e traboccante di ricchezza, di risorse, di benessere, quasi che si ha sempre l'impressione di sprecare qualcosa, di macchiare o di essere in esubero di qualcosa, queste domande non suonano poi, alla fine dei conti, così stupide. Cosa si è perso nel processo educativo per cui, da strumento di auto-realizzazione e di contributo collettivo, si è trasformato in una competizione corrosiva, letale, secondo la quale il mostrare un certo status, sia di rendimento che di stile di vita, è cardine del meccanismo di funzionamento della macchina (o azienda?) accademica?

E' da un po' che ho letto questo passaggio, tratto da Michela Marzano Il diritto di essere io, un sottilissimo saggio che qua e là scade un po' nell'ovvietà, ma i cui principi (conciliare autenticità e regole sociali) condivido profondamente. E da allora non riesco del tutto a trovare una risposta.

"Come si fa a non voler essere perfette in un mondo in cui, fin da piccoli, ci si è sentiti ripetere che la perfezione era l'unico modo per dare un senso alla propria esistenza? Come ci si può distaccare dallo sguardo altrui e ascoltarsi -ascoltare quello che si desidera, quello che si vuole, quello che si sogna- quando si sono imparati solo l'impegno e il sacrificio? Come si fa a capire che la vita, talvolta, può essere altro, meno faticosa, meno impegnativa, meno pesante?
E' semplice. Non si fa. Non si può. Non lo si pensa nemmeno. Perché l'unica cosa che si è imparato a fare, è andare avanti sempre e comunque, indipendentemente da tutto. E allora poco importa se si è stanchi o tristi, poco importa se pian piano la vita diventa grigia, talvolta quasi insopportabile. Si serrano i denti e si va avanti lo stesso. Ci sono i compiti da finire, gli esami da preparare, i concorsi da vincere, le aziende da dirigere. Ci sono le aspettative degli altri e della società. Lo sguardo dei genitori. La speranza delle maestre e dei professori.
Il meccanismo all'interno del quale si trovano oggi tante ragazze e tanti ragazzi è infernale. Hanno imparato a memoria la lezione del volontarismo e del controllo che si sentono ripetere fin da piccoli. Hanno capito perfettamente come comportarsi per sentirsi dire che sono 'bravi'. Credono che 'basta volere per potere'. Basta imporsi una disciplina rigida per raggiungere tutti gli obiettivi che ci si prefigge. Basta credere in se stessi e gestire le proprie emozioni per ottenere successo e credibilità. E col tempo diventano bravissimi a corrispondere alle aspettative altrui. Talvolta anche a prevenirle. La famosa sindrome dei 'primi della classe'. Anche se poi sono proprio le 'più brave' e i 'più bravi' a pagare a caro prezzo quel successo per cui si sono tanto sacrificati. Ottengono 'tutto'. Hanno assolutamente 'tutto'. 'Tutto' tranne la gioia. Che può sembrare una cosa banale e di nessun valore. Solo che, quando si ha 'tutto' tranne la gioia di vivere, questo 'magnifico tutto' non ha più alcun valore.
Dietro il «successo» -diceva il filosofo francese Georges Canguilhem- si nasconde quasi sempre un «fallimento esistenziale». Tutto quello che si sarebbe voluto fare e che non si è fatto perché non c'era tempo, perché qualcuno stava aspettando qualcosa, perché il senso del dovere lo impediva. Ecco perché, a forza di 'dover essere', talvolta è proprio l''essere' che soccombe. Ci si adatta per diventare esattamente come gli altri desiderano, e poi si scopre di non sapere nemmeno che cosa si vuole. Ci si prepara a raccogliere i frutti del proprio impegno, e invece si frana sotto il peso della disperazione.

E' il dramma del 'riconoscimento'. Quel riconoscimento di cui parla un altro filosofo, il tedesco Axel Honneth, che dovrebbe permettere ad ogni persona, proprio in quanto persona, di essere accettata per quello che è, indipendentemente da quello che fa. Un riconoscimento, però, che tanti giovani pensano di dover meritare solo in base agli sforzi fatti. Il problema di tante ragazze e di tanti ragazzi è proprio questo: sono vittime di una cultura dell'eccellenza che li ha spinti a credere che il proprio valore dipenda da quel 'brava' e da quel 'bravo' che si sono sentiti ripetere da piccoli. Fino a costruirsi l'ideale di un 'io' rigido e intransigente che li spinge, anche da adulti, ad accettarsi solo se 'perfetti'. Quando, da piccoli, non si è stati riconosciuti per quello che si era, con le proprie fragilità e i propri difetti, e ci si è convinti che il proprio valore lo si dovesse meritare, come ci si può poi accettare da soli?
Certo, anche l'impegno, i risultati scolastici, il lavoro -e più generalmente quello che si chiama 'merito'- sono importanti. Se non si fanno sforzi, non si ottiene niente. E' il famoso «principio di realtà» di Freud. Molto spesso quando ci si sacrifica, lo si fa per portare avanti il proprio progetto di vita. Non sarà mai il successo, però, che potrà dare un senso all'esistenza. Anzi. Talvolta è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo conto che le nostre fragilità possono diventare un punto di forza. Perché ci aiutano a crescere e a cambiare. Perché ci rivelano qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare.
E se la nostra verità fosse proprio lì, in quell'imperfezione che ci portiamo dentro e cerchiamo a tutti i costi di negare? E se fosse solo nel momento in cui rinunciamo alla perfezione che possiamo poi vivere pienamente?"
Per motivi, ironia della sorta, accademici, forse sto iniziando a cercare delle risposte a questa riflessione, che non sono assolutamente ferme nelle loro posizioni, ma, anzi, costituiscono delle proposte, delle prospettive dalle quali vedere le cose diversamente, punti di raccolta dove forse ci si potrebbe ritrovare, sia con sé stessi che con gli altri. L'uomo ha cercato, storicamente ed antropologicamente, di costruire un muro invalicabile tra sé stesso e tutto il resto, suddividendo quest'ultimo in specie, in categorie, per potersi poi ergere davanti ad esse come un fenomeno assolutamente unico e superiore. Se la si smettesse di considerarsi un'eccezione, una cosa speciale, da riverire e venerare nella sua presunta 'purezza', forse il successo lavorativo diverrebbe qualcosa di meno logorante ed auto-distruttivo. Non dico che il lavoro si tramuterebbe in gioco, perché il gioco non implica sforzo, è puro piacere, però ci si rapporterebbe ad una modalità di esplorare il mondo, di entrare in contatto con esso, non un astratto inseguimento di 'doveri' per poter rispettare le linee guida della specie umana vincente. Chissà se gli studenti seduti in quel caffé in cui ho cercato rifugio due giorni fa, spinta dai morsi del mio stomaco, tra un sorso e l'altro di capuccino, un morso alla pasta trasudante di sciroppo d'acero, una sintesi della lezione frequentata e qualche chiacchera sugli esami e sul barbeque del proprio collega, ogni tanto cercano di gettare i caschi oscurati e soffocanti che secoli di cultura occidentale ci hanno saldamente fissati in testa.

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