Felice sanità

Mia madre mi ha detto che avrei dovuto vivere questa mia giovinezza negli anni Settanta, dove chi stava male, chi sentiva un malessere, veniva ascoltato, magari non capito subito e con fatica, ma ascoltato. Intorno a me mi scontro sempre, invece, con ragionamenti che elevano a principio primo e principe la felicità a tutti i costi, il tabù del soffrire. Perché, dicono, si gode di buona salute (ironico che la generazione di internet faccia gli stessi discorsi che si facevano ai tempi delle mie nonne, nei quali la salute fisica era importante, anche perché una delle poche gioie delle quali prendersi cura, specialmente se si era femmine... Non importa, evidentemente, l'astoricità di tali affermazioni, importa prenderne a piene mani e cospargersi la bocca), si hanno rapporti familiari buoni o decenti, perché non si vive in un paese in via di sviluppo o in pieno conflitto. In pratica, se si è 'sani' (termine così abusato che mi riesce ormai antipatico) ed occidentali, non si ha il diritto di essere infelici. In primis, ci si imbatte nel corollario del razzismo al contrario che un tale ragionamento si trascina dappresso, e cioè che i cosiddetti 'non occidentali' non possano essere felici o non facilmente felici, depauperando di ogni senso il concetto di 'contesto culturale'. Leggevo su Internazionale un bellissimo reportage sul Nepal, nel quale una ragazza/giovane donna, ha deciso di tornare nella sua terra natia dopo vari anni da accademica in Francia perché le strutture europee non le andavano a genio. Secondo i sostenitori dell'essere felici per forza, questa ragazza dovrebbe risultare pazza o rendere, quanto meno, perplessi, dato che ha deciso di tornare in un luogo dove, potenzialmente (tasso di disoccupazione altissimo, inquinamento, ecc.), non ci sono i requisiti per essere felici... Forse perché la felicità è un qualcosa di contestuale? Chissà, probabilmente non ci si pone neanche tale problema.
Non sto millantando che guerra, fame, povertà, malattie croniche, debilitanti e mortali non impediscano la felicità e la gioia di vivere, al contrario. Il rischio che vedo in questi discorsi generalisti è, invece, di perdere di vista l'importanza che il dolore svolge nelle vite umane. Interi disagi psicologici, anche molto profondi, rischiano così di non essere riconosciuti e di non essere accolti nelle loro sfumature, nei loro pericoli insiti, di essere passati sotto silenzio e vissuti in solitudine, magari con vergogna e con un forte senso di colpa 'perché bisognerebbe essere felici'. Come se le dinamiche emotive e gli stati d'animo fossero delle forze prevedibili e scientificamente quantificabili, tali per cui chi ne è il portatore è colpevole di ciò che prova. Connesso a questo discorso vi è una generale paura nei confronti della psicoanalisi e della psicoterapia. O, meglio, esse vengono considerate alla stregua di farmaci verbali con effetto immediato o, in caso di inefficacia, di rimborso. Al di fuori di queste logiche, esse risultano essere solo dei passatempi, dei giochini con i quali trastullarsi se si hanno soldi da buttare via.
Per cui borderline, soggetti percorsi da forti crisi d'ansia o di depressione, bipolari, bulimici, soggetti affetti da disturbi umorali, in quanto non portatori di una qualche sindrome auto-evidente, come la schizofrenia, l'autismo, l'anoressia, corrono il rischio di essere isolati, non ascoltati o, peggio, mandati a quel paese e bollati come irritanti quando sentono l'umano bisogno di esprimere all'esterno il loro disagio. Per poter essere tollerati nella loro sofferenza basterebbe loro avere una qualche forma di malformazione fisica, vivere in strada a chiedere le elemosina... Certo, diventerebbero un edificante esempio di sofferenza umana, sarebbero a parole tollerati e compresi nel loro dolore, ma le persone che sostengono che chi è sano deve essere felice si volterebbero impietositi nella loro direzione? O forse avrebbero fretta di vivere la loro vita felice? Domande retoriche.

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