Chiostro dottorale

A volte nello stare ore a scartabellare libri che, sostanzialmente, non apportano nulla di ciò che si sa già o che non esprimono molti contenuti interessanti, così come nel passare tra varie trafile burocratiche, ci si chiede effettivamente perché si è scelto il dottorato. Il dottorato lo si comincia pensando di investire sul proprio futuro, sulla propria realizzazione personale. Detto in modo più prosaico, di fare ciò che si è sempre desiderato a livello intellettuale.
Poi, ci si scontra con il dato di realtà. Amici che non hanno intrapreso quella via che stanno cominciando a costruire una propria sfera affettiva, un proprio spazio libero grazie ai frutti dei loro primi guadagni. La voglia di fare e creare anche qualcosa di diverso dalla propria tesi (tipo imparare una nuova lingua, per dire) rende, talvolta, il lavoro un tantino ingessante. Discorsi, molto più diffusi di quanto si pensi, che il dottorato, sì, in teoria è qualcosa di bello, in pratica è un vuoto a perdere.
Da un certo punto di vista, il dottorando (in questo caso io) esperisce effettivamente una sorta di vuoto, perché ha la sensazione che il mondo attorno a lui stia girando vorticosamente mentre il proprio sole sta fermo, immobile. Si rimane in un limbo spazio-temporale scandito unicamente dai ritmi della propria ricerca. Non necessariamente questo è un male, anzi non si sa mai dove la ricerca possa effettivamente portare: intuizioni, lampadine che si accendono nel cervello, epifanie che ti illuminano la giornata; contatti con persone che, tangenzialmente, si occupano del tuo ramo per qualche ragione e che non avresti mai ipotizzato di incontrare neanche da lontano; viaggi in paesi diversi, sia per la propria ricerca che per conferenze, che, probabilmente non avresti mai visitato da sola/solo; avere la possibilità di conoscere un mondo, quello accademico, che da studente appare in una luce che lo trasfigura, ecc.
Di questo ne sono molto convinta: il dottorato è tipo di lavoro claustrale e certosino. Si procede per piccole cesellature, piccole deviazioni, l'occhio deve essere concentrato e teso a cogliere i particolari. L'energia, quindi, non tende a spalmarsi all'esterno, ma si proietta verso l'interno. Di qui una strana sensazione di essere in un'isola a sé. In effetti, e chi ha iniziato il dottorato o sta sostenendo delle prove per essere ammesso al ciclo lo sa perfettamente, lo scopo del dottorato è proprio quello di produrre una ricerca innovativa, cercare il più possibile di essere gli unici esperti del proprio campo. E l'unicità spesso si accompagna alla solitudine. Non soltanto materiale, nel senso che certi tipi di relazione (come quelle affettive) passano in secondo piano, specialmente se non se ne hanno di partenza, ma anche, e soprattutto, a livello esistenziale, ovvero condividere la propria esperienza. Chi non fa il dottorato è difficile che possa mettersi sulla stessa frequenza d'onda del dottorando, capirne le gioie e i dolori, così come è molto complesso e complicato confrontarsi con altri dottorandi, perché è come se parlassero un dialetto leggermente diverso, anche quando si tratta di discipline abbastanza affini. Chiaro quindi che solo persone disposte a costruire un mondo a sé stante possono accarezzare l'idea di fare un dottorato. Persone che, forse, non sentono ancora l'urgenza di costruirsi qualcosa (e per qualcosa si intende un nucleo affettivo, socialmente condivisibile), o che ne sono terrorizzati o che non se ne curano e vogliono soltanto seguire il flusso dei propri pensieri.
Una verità intramontabile resta, però: così come il dottorato inizia, il dottorato finisce. Dopo si può anche decidere di uscire dall'autismo intellettuale e godere delle proprie cesellature.

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