Votarsi all'antropologia

Il mondo è cominciato senza l'uomo e finirà senza di lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita ho catalogato e cercato di comprendere, sono una fioritura passeggera d'una creazione in rapporto alla quale essi non hanno alcun senso, se non forse quello di permettere all'umanità di sostenervi nel suo ruolo. Sebbene questo ruolo sia ben lontano dall'assegnarle un posto indipendente e sebbene lo sforzo dell'uomo -per quanto condannato- sia di opporsi vanamente a una decandenza universale, appare anch'esso come una macchina, forse più perfezionata delle altre, che lavora alla disgregazione di un ordine originario e precipita una materia potentemente organizzata verso un'inerzia sempre più grande e che sarà un giorno definitiva. Da quando ha cominciato a respirare e a nutrirsi fino all'invenzione delle macchine atomiche e termonucleari, passando per la scoperta del fuoco -e salvo quando si riproduce- l'uomo non ha fatto altro che dissociare allegramente miliardi di strutture per ridurle a uno stato in cui non sono più suscettibili di integrazione. Senza dubbio ha costruito delle città e coltivato dei campi; ma, se ci si pensa, queste cose sono anch'esse macchine destinate a produrre dell'inerzia a un ritmo e in una proporzione infinitamente più elevata della quantità di organizzazione che implicano. Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all'uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso. Cosicché la civiltà, presa nel suo insieme, può essere definita come un meccanismo prodigiosamente complesso in cui saremmo tentati di vedere la possibilità offerta al nostro universo di sopravvivere, se la sua funzione non fosse di fabbricare ciò che i fisici chiamano entropia, cioè inerzia. Ogni parola scambiata, ogni riga stampata, stabiliscono una comunicazione fra due interlocutori, rendendo stabile un livello che era prima caratterizzato da uno scarto d'informazione, quindi una organizzazione più grande. Piuttosto che antropologia, bisognerebbe chiamare 'entropologia' questa disciplina destinata a studiare nelle sue manifestazioni più alte questo processo di disintegrazione. Eppure io esisto. Non certo come individuo; perché, che cosa sono io, sotto questo rapporto, se non la posta, ad ogni istante rimessa in gioco, della lotta fra un'altra società formata di qualche miliardo di cellule nervose raccolte nel formicaio del mio cranio, e il mio corpo che le serve da robot? Né la psicologia né la metafisica né l'arte possono servirmi da rifugio, miti ormai passibili, anche all'interno, d'una sociologia di nuovo genere che nascerà un giorno, e che non sarà per loro più benevola dell'altra. L'Io non è soltanto odioso: esso non ha posto fra un 'noi' e un 'nulla'. E se finalmente scelgo questo 'noi', benché sia ridotto a un'apparenza, è perché, a meno di non distruggermi -ho che una sola scelta possibile fra questa apparenza e il nulla. Ora, basta che io scelga perché, a causa di questa stessa scelta, io assuma senza riserve la mia condizione di uomo: liberandomi così di un orgoglio intellettuale di cui misuro, da quella del suo oggetto, tutta la vanità, accetto anche di subordinare le sue pretese alle esigenze oggettive della liberazione di una moltitudine a cui i mezzi di una tale scelta sono sempre negati. Come l'individuo non è solo nel gruppo e ogni società non è sola fra le altre, così l'uomo non è solo nell'universo. Quando l'arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo -questo tenue arco che ci lega all'inacessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura all'uomo l'unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino; trattenere l'impulso che lo costringe a chiudere una dopo l'altra le fessure aperte nel muro la necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, quali che siano le loro credenze, il loro regime politico e il loro livello di civiltà, in cui esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro libertà; possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste -addio selvaggi! addio viaggi!- durante i brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta d'interrompere il suo lavoro da alveare, nell'afferrare l'essenza di quello che essa fu e continua ad essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d'occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un'intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto. Levì-Strauss, Tristi Tropici (conclusione)

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