Romanzo (forse incompiuto) a puntate - Parte V (b)

Elsa quella mattina era decisamente su di giri. Non riusciva a decidere cosa mettersi... I vestiti ultrafemminili la facevano sentire sempre insofferente e goffa. Anche se il suo desiderio di rendersi trasparente quanto l'aria era ormai soltanto un blando ricordo che, ogni tanto, tornava a tornarle il sonno, ancora adesso, sentendosi amata e realizzata, faceva fatica a non provare imbarazzo per le pieghe del suo corpo. Scartabellando gli indumenti nell'armadio, venne tentata dai pantaloni blu scuro a sigaretta, dalla camicetta azzurro-cenere, dalla cravatta blu notte e dalla giacca in tinta con i pantaloni che indossava sempre durante un'intervista importante o ad una solenne conferenza stampa. Pensò che l'avrebbe presentata davanti alle altre mamme come la giovane donna intellettuale cosmopolita che spesso voleva essere, una corazza difensiva rispetto alla paura di doversi mettere alla prova con altri esponenti del sesso femminile, una sua paura atavica, come ben sa il lettore.
"Già c'è il problema di Iris da gestire." Si sorprese a riflettere sottovoce.Un'ondata di repulsione nei confronti di sé stessa cominciò a divampare. Ma come, si era battuta tutti questi anni per rendere Iris orgogliosa delle sue peculiarità, e, poi, per uno stupidissimo primo giorno di scuola deve essere proprio lei la prima ad avere disagio per la sua bambina? Una lacrima colpevole le scese lentamente dalla guancia sinistra. Anche le persone bene intenzionate possono essere combattute da sentimenti contrastanti in contesti critici. Elsa scacciò quel demone dalla testa come se le avesse ronzato nelle orecchie una zanzara. Si diresse senza indugio alcuno, con la scioltezza dei movimenti datale dal suo completo, verso la camera di Iris per svegliarla e prepararla a dovere.

Era stata avvisata già da un paio di mesi che avrei dovuto iniziare le elementari. Sarà perché un emisfero di me mi ripete in continuazione che non ci sarà nulla di buono in tutto questo, ma in questi ultimi giorni di libertà faccio tutto quello che più danneggerebbe una scolaretta diligente. Rispondo male ai genitori. Mi rotolo volutamente nell'erba per sporcare tutti i vestiti di verde chiaro. Stuzzico Groucho fino a farmi graffiare tutti i centimetri di pelle esposta. Sparisco per ore nel bosco fino al rischio di farmi mettere in punizione. Come se non bastasse, stanotte sono sgattaiolata via per andare al laghetto qui vicino. Ho sorriso alla luna piena e mi sono tuffata con il pigiamino con i coniglietti che mia madre mi aveva regalato pochi giorni fa. Una bella sensazione di limpidezza, come solo l'acqua mi sa trasmettere, placa per un attimo il mio furore. Mi viene in mente il quadro di John Everett Millais che ritrae Ofelia e, per un attimo, mi immagino i capelli cosparsi di ninfee colorate.



E' da un po' che faccio fantasie suicide. Non vedo perché io debba fare così tanta fatica e così tanti sacrifici mentre le mie coetanee si spintonano per rubarsi a vicenda una Barbie più bionda e rosea di quella che hanno già. I figli dei miei amici di famiglia si preoccupano solo per qualche frazione di secondo del mistero della morte, del paradiso e dell'inferno. In file disciplinate, ricevono la comunione e la masticano come se fosse una gustosa patatina. Si confessano affranti con il prete, per poi tornare a casa ripetendo gli stessi "peccati" dai quali sono stati prosciolti e, con un sorriso ebete, si ripetono fra sé e sé che anche questa volta ce l'hanno fatta.
Ne ho parlato pochi giorni fa con Storti di questi temi... Zoe, per quanto le voglia bene, non riesce ad andare al di là della scienza. I miei genitori non sono per nulla religiosi... Volendo essere precisi, mio padre sarebbe di religione ebraica, neanche cristiana. Uno dei secolari pretesti per perseguitare gli ebrei non consisteva proprio nell'accusa di deicidio? A volte, quando mi sentivo osservata con superiorità dagli altri bambini mi dicevo che avevano scoperto che era la figlia di un pronipote di deicidi. La paura di poter bruciare tra le fiamme dell'inferno perché non ero battezzata e, in più, non credente poteva anche diventare opprimente in quelle circostanze. Ma poi venivo a conoscenza di crociate, di schiavitù, di genocidi, tutti atti che sfiguravano l'immagine di Dio, l'uomo, perpetrati in nome della stessa legge di quest'ultimo, e questa ipocrisia di fondo mi rinfrancava del fatto che, se anche fosse realmente esistito un inferno, non ci sarei bruciata soltanto io.
Storti mi aveva citato, a questo proposito, quel famoso aforisma freudiano che "la religione è l'oppio dei popoli". Indubbiamente, giustificare i propri atti con la debolezza del peccato originale e rimettere le proprie decisioni "alla volontà di Dio" è molto simile a quella forma di dipendenza e di irresponsabilità che procurano le droghe. Ed è molto facile, storditi dai loro effetti allucinogeni, restare in balia di uomini potenti e dei loro giochi di potere... Ma penso che ci sia anche qualcos'altro dietro a questo bisogno di religione, qualcosa che nulla ha a che vedere con gli inganni della politica o dell'imperfezione umana.
Osservo le piante lacustri attorno al laghetto. Ripasso a mente ogni fase della fotosintesi che mi aveva illustrato Zoe tempo fa. Penso al sistema di fasci, di vasi linfatici, agli steli. Ogni più piccola cosa pensata per servire un tutto più grande ed organico. Anche noi, nascendo per poi morire, non siamo che le cellule vegetali di una gigantesca pianta, che è a sua volta una fibra minuta di un'altra pianta più grande di lei, e così via. Non so se credere ad un ente superiore che sta in cima a quest'infinita scala a chiocciola. Però credo nella piccolezza umana e nella sua necessità di dipendere da un'unità che la trascende, un centro propulsivo che è la natura stessa, o, ,meglio, la forza di conservazione. Nulla si crea e nulla si distrugge nell'universo: tutto tende a riequilibrare l'energia cosmica iniziale, quella che è conflagrata per dare origine ad isole satellitari come questo piccolo stagno frequentato da me, Groucho ed un centinaio di rane e libellule.
Sì, forse è per via dell'indottrinamento di Zoe che sostituisco le leggi divine con quelle della fisica... Credo però di fare un passo più in là del pensiero scientifico. Questa farfalla violetta-azzurra che mi sta facendo il solletico sul naso in questo momento è sì un aggregato molecolare dotato di senso, come tante farfalle della sua specie, ma il suo istinto si prefigge uno scopo che, pur portando al medesimo risultato di tutti gli esseri viventi, la rende unica, in sé e per sé, perché quel che sta sperimentando lei nell'arco della sua vita nessuno può immaginarselo dettagliatamente o viverlo in prima persona, a meno che quel nessuno non coincida poi con lei.
Trascendenza ed immanenza, appartenenza ad una specie e soggettività. Disegno predestinato ed imprevisto. E' tutto un gioco di oscillazioni, io credo. Ma l'oscillazione non ha mai rassicurato nessuno. Ecco perché affidarsi, delegare la piccola ma, al tempo stesso, enorme responsabilità che abbiamo in quanto singolarità a qualcun altro che reputiamo, invece, fisso ed incrollabile. Un barlume di idea su come questo possa collegarsi alla paura che gli altri hanno di me fa capolino nella mia testa, ma, nonostante la lotta che sto ingaggiando contro le cose negative dell'andare a scuola, la mia volontà non è più così ferrea a causa della stanchezza. Persino la fantasia suicida di prima svanisce come una bolla di sapone. Ora è più importante risolvere il problema delle palpebre pesanti.
Esco dal laghetto. Meccanicamente strizzo le ciocche bagnate dei miei capelli mentre mi dirigo a passo svelto verso casa. Toccare la superficie fresca del cuscino con le guance mi fa sentire in una dimensione temporale sospesa. Ora, il problema di andare o no a scuola domani non si pone più.

Carla stava leggendo il giornale e bevendo il caffè come tutte le mattine. Ad un tratto, un urlo agghiacciante lo fece sobbalzare, rovesciare il tè e rendere il giornale una poltiglia inconsistente. Un po' per il piacere mattutino rovinato, un po' per la preoccupazione di quello che era potuto succedere, Carlo si diresse di scatto verso la fonte sonora... Lì vi trovò Elsa, con quelle saette che brillavano negli occhi celesti che conosceva bene e che temeva, che teneva per un orecchio Iris, con il pigiama nuovo completamente fradicio e i capelli intrisi di fango e di foglie.
"Cosa devo fare con questa bambina? Manca soltanto un'ora allo scoccare della campanella e guarda in che stato è!"
"E' stata al laghetto, ovvio. Mi chiedo però come abbia fatto ad uscire indisturbata da casa. Testarda com'è, non lo dirà nemmeno sotto tortura." Le parole di Carlo caddero nel vuoto. Elsa aveva già immerso con forza Iris nella vasca, strigliata a dovere. I capelli, lunghi fino all'osso sacro, costituivano la parte più impegnativa: Elsa scartò velocemente il piano della sera prima di raccoglierli in una morbida treccia e concentrò tutte le sue energie nel renderli puliti, presentabili ed asciutti. Nonostante le resistenze, Iris fu pronta in una decina di minuti.

Mi guardo allo specchio: ecco la me che piace tanto a mia madre. Capelli vaporosi e pettinati maniacalmente, il viso ormai traslucido a forza di essere frizionato con il sapone. Il collo che manda un lieve profumo di bergamotto. Il vestito verde chiaro ereditato dalla nonna, prima bambina bucolica ed aristocratica (ebbene sì, i due aggettivi andavano insieme), poi celebre arpista dal fascino misterioso. Tutti in famiglia dicevano che avevo un non so che che la ricordava. E' buffo quanto il discorso dell'adozione venga, presto o tardi, pressoché dimenticato: l'irresistibile sensazione di possesso resta e le attestazioni "araldiche" che sanciscono l'appartenenza ad una data famiglia fioccano a dismisura, forse più del dovuto perché non ci sono i cromosomi, o il colore degli occhi a parlare da sé.
Io mi preferivo come ieri notte, cioè senza né uno specchio fisico davanti a me, né uno interiore che mi rendevano consapevole della categorizzazione sociale che manipola il mio corpo. Semplicemente pensiero, respiro, acqua. In fondo, noi non ci vediamo quando scoppiamo dalla gioia, quando annusiamo la brezza marina o accarezziamo il pelo di un gatto. E in quei momenti, in cui il nostro corpo è una fucina pulsante, un polmone a cielo aperto che ci mette in contatto con il resto dell'esistente, non ci curiamo nemmeno di che aspetto possiamo avere. A che scopo gli specchi? Altri strumenti di tortura inventati da noi stessi per poterci irregimentare in qualche plotone sociale: cosa vuoi essere stamattina? Acqua e sapone, oppure dalle labbra rosso fuoco? Rasato o con la barbetta incolta da intellettuale? Se non esistesse uno specchio interiore, il quale poi si ingigantisce per divenire sociale, nessuno si sarebbe preso la briga di fabbricare un terzo occhio per poter controllare le nostre fattezze.
Nauseata dalla sensazione che, d'ora in poi, questo specchio sociale avrà un peso specifico sempre più rivelante, addento di malavoglia il pane con la marmellata di more che, solitamente, mi piace da farmi venire il mal di pancia. Con la scusa che "per colpa di un mio capriccio" siamo in ritardo per il primo giorno di scuola, dò un morso sbrigativo alla fetta traslucida. Groucho mi saluta dall'ultima scansia della libreria con uno sguardo colmo di comprensione e balza dentro al mio zaino. Con gli occhi bassi, salgo, ormai arresa, in macchina.

Elsa arrivò trafelata davanti al piazzale della scuola. Solitamente, stare a braccetto con Carlo aveva il potere di rilassarla, ma stavolta era una faccenda diversa. Era talmente concentrata a controllare che Iris non commettesse sciocchezze, che, quando si accorse di avere tutti gli occhi delle altre mamme addosso, per poco non sbiancò in faccia. Si sentì immediatamente piccola ed insignificante. Certi circuiti mentali che la tormentavano da adolescente ripresero il percorso interrotto ormai da anni. In particolare, la presenza di quella donna alta, impeccabilmente vestita all'ultima moda, dai tacchi svettanti, dal portamento altero e dalla bellezza statuaria la metteva a disagio. Sentì le orecchie infiammarsi quando gli algidi occhi di quella creatura gli si posarono con studiato fastidio.


Il romanzo incompiuto finisce qui. Meglio, finisce qui la trascrizione di quel periodo che ha dato scaturigine a quelle parole. Non so se darne un seguito o se lasciarlo così, a testimonianza di un periodo che ho passato.
Mi prendo un po' di tempo per pensarci.

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