Romanzo (forse incompiuto) a puntate - Parte IV (f)

(continuazione del terzo capitolo)

C'era una ragazza dal sarcasmo pungente, ma anche capace di osservazioni profonde che disvelano una sua natura più sensibile e dolce, che si era unita al suo gruppo di chiacchierate che faceva capannello nell'aula B a gradoni del dipartimento di antropologia. Qualcosa dentro di lui vibrava ogni volta che sentiva la sua voce, proveniente dai corridori, approssimarsi all'aula, ogni volta che il suo viso veniva illuminato da una risata intelligente e con un che di infantile, ogni volta che, a seguito di una sua tirata particolarmente salace all'indirizzo di qualche vittima sacrificale (un altro studente, certe espressioni del professore di antropologia, ecc.) sparata sussurrando all'orecchio dei suoi compagni, la testa di lei le si appoggiava per un istante alla spalla, nel caso in cui lei si fosse seduta nel posto esterno alla prima fila, dove solitamente lui si "parcheggiava" con la sua sedia a rotelle. Più volte la sua mente, nei momenti di distrazione, lo riportava a quella sensazione fugace dei capelli soffici di lei, del loro profumo. Cercava di scacciare questi pensieri, non sapendo come interpretarli.
Un giorno, capitò che nessuno del "gruppo di antropologia" restò a chiacchierare alla fine della lezione. C'erano solo lui e lei. Smontato dall'assenza della corazza protettiva del "branco", il ragazzo lasciò la sua abituale spavalderia per un inusuale stato di imbarazzo. Sentì distintamente le orecchie imporporarsi. La cosa lo irritò nel profondo. E quando lei cominciò con i suoi discorsi profondi, infilandoci qualche suo sentimento di pietà per lui, rivolgendogli domande personali (che di qualunque genere fossero, lui era permanente convinto che fossero dettate unicamente da quella pietà forzata che gli "altri" avrebbero provato per lui), le risposte in tono brusco per poi spingere a più non posso le ruote della sua carrozzina e guadagnarsi in tal modo l'uscita.
Quella sera pianse a lungo, non solo per le ferite che si era procurato sui palmi delle mani, ma, specialmente, per lo sguardo atterrito di lei, i grandi occhi castani arrestati in un biasimo senza deroghe, e quindi, sostanzialmente, alle ferite che lui aveva inferto nell'animo di lei. Proprio in quella parte che così difficilmente appariva all'esterno e che lei dispensava solo in circostanze molto particolari. Il giovane non riusciva a darsi pace, la domanda sul perché proprio lui fosse stato considerato meritevole di una di quelle occasioni lo assillava.
Per due settimane non la rivide più alle lezioni di antropologia. Nessun'altra testa gli si appoggiò sulla spalla per tutto quel tempo e mai l'avrebbe fatto con quella grazia di pochi attimi cominciarono a mancargli le onde dei suoi capelli biondo scuro, i loro riflessi ramati se venivano trafitti da un raggio di sole che penetrava l'aula. Cominciò ad arrovellarsi dentro di sé, a capire che l'unico artefice di una perdita così preziosa era soltanto lui, con la sua dannata mania di prevenire la paura che lui aveva di sé stesso considerando gli altri solo come dei giudici di ciò che lui odiava di sé con tutte le forze. Il vuoto lasciato da quella ragazza esile e che non prendeva mai sul serio nulla era divenuto così opprimente che, una mattina d'autunno inoltrato, aspettò dall'uscita dell'aula di biologia, dove aveva saputo che lei stava seguendo un corso propedeutico per il suo indirizzo in psichiatria. Si portò con sé gli appunti di antropologia presi durante l'assenza di lei.
Quando incrociò il suo sguardo, non riuscì a calmare i battiti del suo cuore, non riuscì a porgerle delle scuse formali per il suo comportamento ingiustificabile, ma soltanto a balbettare il pretesto della sua venuta, ovvero gli appunti che le avrebbe prestato. Qualsiasi altra ragazza di sarebbe impuntata o l'avrebbe ignorato. Lei no. Prese i suoi appunti e lo ringraziò con un sorriso. Era troppo intelligente per non capire le sue reali intenzioni. Fu da quel momento che il ragazzo comprese il motivo della sua solitudine, ovvero la paura degli altri e di sé."
Il dottore sfuma le sue parole conclusive in un lungo respiro, quasi come se, in tutto quel tempo, avesse dovuto fare enormi sforzi per raccontare in uno stato di apnea emotiva.
Per una frazione di secondo percepisco che quello che dice non ha altro scopo se non quello di evitare ad altri un'esperienza così travagliata. Le mie difese cominciarono a sgretolarsi in un timido sorriso di simpatia alla volta del dottore. Nonostante ciò, un paradosso fa capolino nella mia mente.
"Ma se il mio problema è la paura di essere giudicata, cosa che poi mi crea forti pregiudizi sull'onestà degli altri a conoscermi..."
"Uhm?" Il dottor Storti sta saggiando compiaciuto la concatenazione logica dei miei ragionamenti, come se attestassero un cambio di registro in favore del suo aiuto.
"...come faccio ad affrontarlo e risolvere in un contesto in cui, già di partenza, si è formulato un giudizio sulle persone che dovrebbero usare tale contesto per risolvere i loro problemi? Io penso che lei sia una persona sincera. Non è il solito medico che vuole imporre le sue teorie scientifiche senza nemmeno aver provato cosa significhi attraversare una certa esperienza spiacevole o una malattia. Lei ha vissuto sulla sua pelle il tormento dato dallo scrutinio degli occhi degli altri, per cui, quando dice di volermi aiutare, lo fa a ragion veduta... Ma come può credere che io possa affidarmi a lei quando, per il semplice fatto di essere seduta qui, la gente mi ha già catalogata come quella "problematica"?"
"Dimmi Iris, tu sei soddisfatta della tua vita?"
"Ad essere franchi, no."
"E questo non è già di per sé un problema?"
Penso alle mie ulcere nello stomaco, alla rabbia che si accumula dentro di me, a quella strana sensazione di sentimenti bloccati, come frenati, nelle azioni che vorrei compiere quando sono con gli altri.
"Certo che ho un "problema", se per problema si intende una ragione poco consapevole che ci fa sentire fuori posto."
"Benissimo..."
"Però come fa una persona che ha un problema sul giudizio e l'opinione degli altri a risolverlo attraverso uno "strumento" che non fa che produrre giudizi e, quindi, il problema stesso? Combattere il problema con un problema molto simile non è che possa avere come effetto quello di aggravare la problematica iniziale?"
 
[voce fuori campo]
Storti riflette per pochi istanti, evidentemente, impressionato dalla consapevolezza della piccola della problematicità del rapporto psicoanalitico. Rare volte si era imbattuto in pazienti che riuscivano a fare ragionamenti che non fossero totalmente assorbiti dalle loro dinamiche "patologiche". La bambina mostrava una straordinaria onestà intellettuale.
 
"Quello che dici è vero. Per un paziente risulta assurdo sconfiggere le sue paure rivivendole su di sè in seduta. Si crede che, per stare meglio, l'antidoto stia altrove... Ma, anche se si fosse trovato un rimedio alternativo, il paziente sarebbe poi consapevole del suo "male"? Magari lo sarebbe solo razionalmente: saprebbe dire di che tipo di problema soffre, ma non sarebbe minimamente come si manifesta mentre vive la sua esistenza, non ne riconoscerebbe i sintomi e sarebbe travolto dal malessere. Purtroppo bisogna sconfiggere il nemico con le sue stesse armi: so quanto possa far stare male, ma è solo così che si diviene realmente consapevoli di ciò che ci affligge. Non se ne "guarisce" mai, ma, almeno, si sa come tenerlo sotto controllo... Mi spiego Iris?"
"Sì, certo... Le chiederei però un favore..."
"Dimmi pure..."
"Non bruci le tappe o non cerchi di forzare la mia evoluzione verso questa maggiore consapevolezza. Non si può affrontare tutto d'un colpo quel tipo di terrore, altrimenti il rischio è che ne sia troppo spaventata per andare avanti. Abbia molta pazienza con me, dottore."
Vedo un sorriso raggiante dipingersi sul volto di Storti.
"Cara Iris, credo che tu abbia già fatto notevoli passi avanti soltanto con questa conversazione!"
Sento le guance avvamparmi... Sono poche le volte che ricevo complimenti e quando succede mi sento come vulnerabile: mi piacerebbe scoprire la mia natura da sola e non essere colta di sorpresa in questo modo.
"Abbiamo ancora una mezz'ora di seduta, quindi non indugiamo oltre... Cosa provi quando ti senti giudicata?"
Con un sospiro, comincio a districare la nodosa matassa raggrumata nella gola. Sento il muro vocale opporre una ferrea resistenza e con molta fatica cerco di enucleare pian piano le mie emozioni.
Non sarà per niente facile questo percorso. Tante lacrime e tanto sangue verranno versati.
 
(fine del terzo capitolo)

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