Romanzo (forse incompiuto) a puntate - Parte IV(e)

(continuazione del capitolo terzo)

"Ciao Iris" mi dice, con incredibile scioltezza dei polsi, il dottor Storti.
"Salve dottore."
"Tua mamma è venuta a raccontarmi un po' di te, però mi piacerebbe conoscere nuove cose di Iris. Se dovessi presentarti ad un nuovo amico, cosa gli diresti?"
"Che sono Iris, una bambina di quasi sei anni. Che sono stata abbandonata appena sono nata insieme ad un gatto che ora è una specie di guru e di fratello. Che da quando sono nata tutti mi considerano come un "caso" e non ci provano mai a conoscermi sul serio. Che temo che anche lei, dottore, sia uno di quelli. D'altronde lei è pagato per disinstrambare gli strambi, no?"
Dottor Storti si pizzica per un attimo la porzione di barba che copre il mento aguzzo, l'espressione del volto indefinibile.
"Ah, quindi Iris hai già pensato di fare di me un altro "caso"?"
"..."
"Sei corsa dritta alla meta e hai già deciso che non vale la pena conoscermi senza nemmeno tentare?"
"..."
"Non ti sembra di applicare gli stessi metodi che pensi che gli altri usino con te con tutto ciò che fa paura?"
"Perché dovrei farlo, dal momento che non lo auguro a nessuno di essere nella mia situazione?" Comincio ad esplodere e a non riuscire a contenere il mio furore "Crede che sia facile vivere come io?"
"No, non ho mai pensato questo."
"E allora perché dirmi che sono al tempo stesso vittima e carnefice? Perché esprimere dei giudizi pesanti sul mio conto, così, gratuitamente?"
"Perché tu non hai fatto lo stesso con me dicendo che anch'io ti penso come "un caso" e che "disinstrambo gli strambi"?" Storti è imperturbabile. "A me sembra" la sua sicurezza mi accresce la rabbia "che io non l'abbia giudicata. Ho solo pensato che lei sia nella norma, ed essere nella norma non è una cosa negativa..."
"Ah sì?"
"..."
"Se è così, allora tutti quelli che votarono in massa per Hitler erano la norma. Non sbagliarono, secondo il tuo punto di vista?"
"Ma no, non è assolutamente vero!"
"E quindi cosa vuoi dirmi?"
La rabbia lascia il posto allo spaesamento. Inizio a fissare un punto di fuga immaginario della luce alla mia destra. Sento che il dottore prende stenografici appunti. Altri segni per condannarmi?
"C'è che ho paura di lei. Ho paura di qualsiasi persona che mi scruta, mi analizza, nota le mie stramberie."
"Ecco, mi sembra che soltanto ora tu stia dicendo la verità. Ti accorgi che con l'"alibi" del fatto che tutti dovrebbero essere lì a vedere le tue "stranezze" tu non vuoi conoscere gli altri? Che è una tua forma di difesa?"
Sento delle lacrime scorrermi sul viso. Lo nascondo nei palmi delle mie mani. Mi gira la testa. Voglio uscire di lì e alla svelta.
"Dottore, lei mi sta facendo del male, io ora non mi sento bene per niente. Non ce la faccio a continuare, per favore mi faccia uscire di qui."
"Anche se volessi, non potrei, Iris. Sei una minorenne, tua madre si aspetta di trovarti qui tra mezz'ora. Se ti perdi, non me lo potrà mai perdonare. Sei sotto la mia responsabilità, ora. Però, se vuoi, smettiamo di parlare di queste cose."
Man mano che il mio strizzacervelli mi parla, scendo dalla sedia dove dovrebbe stare seduto il paziente e mi infilo nell'intercapedine tra l'ultimo ripiano della libreria e il pavimento. Mi raggomitolo e chiudo gli occhi. Respiro a fondo. Chiudere gli occhi è un modo per non sentire più nessun discorso. Mi dimentico, però, che il dottore non è muto come me... Anzi, ha una bella voce, profonda ed espressiva.
"Ti racconto una storia, Iris, la storia di un bambino che aveva il sacro terrore degli altri, proprio come tu adesso."
Sento cigolare la sedia a rotelle, la mano ha smesso di scrivere. Sono cessati i tichettii  della punta della biro sul foglio di carta. Forse è tornato a guardare dalle fessure della tapparella della finestra. O forse si è avvicinato nella mia direzione. Dicono che chi parla, anche quando non è sordo-muto, ha bisogno di stabilire un contatto visivo con chi lo ascolta. Mi chiedo perché, dal momento che l'orecchio continua a sentire anche se l'occhio è da un'altra parte. E poi, sicuramente, non è una persona che vuole perdere del tempo con una bambina stramba, la aiuta solo perché la mamma di quest'ultima lo paga profumatamente.
"Questo bambino era nato con una malattia grave: non riusciva a camminare. Non poteva correre, come tutti gli altri bambini, e calciare un pallone. Arrancava a fatica sulle sue stampelle. Dove un paio d'anni, dovette usare una sedia a rotelle perché i medici gli avevano detto che non c'era più nulla da fare, che era ormai paralizzato nelle gambe."
Non sono così stupida da non capire che Storti sta parlando di sé stesso. Anche se non mi sono piaciute le persone che parlano di sé in terza persona, come se fossero una sorta di exemplum per l'umanità, non voglio uscire dal nascondiglio per metterlo al corrente della mia insofferenza. E poi, in fondo, sono curiosa di sapere dove vuole andare a parare.
"Questo bambino aveva perso la mamma mentre partoriva il suo fratellino, che si rivelò essere sordo congenito. Tutte le volte che conosceva una persona nuova non stava neanche ad ascoltare quello che quest'ultima voleva dirgli. Attendeva con timore misto ad impazienza che cominciassero a fioccare le domande sulla sua "stranezza": su suo fratello, su sua madre, su di lui. E anche nel caso in cui l'interlocutore non domandava nulla di lui, ma voleva soltanto condividere con lui la bellezza di un libro appena letto, il fanciullo, dopo un po' che proseguiva nel monologo senza speranze di trasformarsi in dialogo, si assentava con la scusa di aver una grossa emicrania per poi nascondersi da qualche parte per piangere e spergiurare contro il mondo intero. Poi un giorno quel bambino divenne un ragazzo e quella sua condizione divenne per lui ancora più penosa. Credeva che nessuna ragazza gli avrebbe aperto il suo cuore per lui, soltanto per lui. All'università scansava ogni conversazione con il fare scorbutico proprio dei vecchi scontenti ed inaciditi dalla vita. Alla sua sempre più lancinante solitudine si era abituato da tempo: è vero che usava con spietata arguzia l'autoironia per costruirsi relazioni sociali superficiali che lo facessero divertire di tanto in tanto, ma il suo vero io continuava a difenderlo con ferocia dagli sguardi altrui.

(continua...)

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