Romanzo (forse incompiuto) a puntate - Parte IV (d)

(continuazione del terzo capitolo)

Guglielmo Storti veniva considerato da tutta la comunità scientifica del paese come un luminare della psicoanalisi ormai da decenni Molti studenti freschi di laurea cercarono di entrare nelle sue grazie scrivendogli lunghe lettere di adorazione, alle quali seguivano tutt'al più risposte straordinariamente schive ed evasive. Nonostante la sua naturale propensione alla disciplina, il suo genio incontrastato e sempre brillante malgrado l'età avanzante, Guglielmo non si considerava degno di assumere le veci di mentore di qualche giovane mente ricca di promesse. Evitava il più possibile conferenze ed eventi culturali di qualsiasi genere, a meno che non ritenesse la tal occasione fondamentale per lo sviluppo ed il progresso della psicoanalisi. Una perfetta traduzione, in chiave intimista, degli sforzi fatti da Sigmund Freud per emendare la psicoanalisi da ogni elemento di fanatismo e di caratterizzazione religiosa: una vita pensata e calcolata per i vantaggi che ne avrebbe tratto la nuova, epocale, scienza. Di Freud, Guglielmo rigettava molte nozioni, troppo sorpassate e figlie di un'epoca di universalismi concettuali: i suoi lunghi viaggi al fianco della moglie etnopsichiatra gli avevano aperto gli occhi sull'applicabilità "universale" del metodo psicoanalitico. La scienza delle parole poteva essere efficace unicamente con pazienti di background culturale occidentale, immersi totalmente in quella data cultura al punto da respirarla come se fosse stata aria. Era giusto, dall'altro lato, che disfunzioni dell'Io e quant'altro venissero interpretati e risolti secondo lo schema culturale di appartenenza del soggetto. Considerava guru, sciamani ed altri specialisti della cura delle anime come suoi colleghi. Non storceva il naso, come tanti altri colleghi, di fronte ad esorcismi, invocazioni di spiriti, fenomeni come la trance o il tarantismo. Tutto aveva un suo senso: questo era l'insegnamento che aveva tratto dalle sue letture giovanili di Lèvi-Strauss, ancora prima che incontrasse quell'uragano di idee della donna della sua vita.
La sua stessa invalidità e quella di suo fratello lo avevano, da sempre, indotto ad un relativismo pressoché totale della realtà, un'estremizzazione di un pensiero, quello liberale e progressista del padre, noto filosofo morale con una prestigiosa cattedra, dal sapore illuminista. La madre di Guglielmo, una giovane promessa della pittura moderna, era morta a seguito delle complicazioni del parto del secondogenito, Enrico. Il suo fisico nervoso e perturbato in continuazione da problemi cardiaci, che le avevano imposto una vita ritirata, lontana da emozioni forti, non aveva retto. Ma Elisabetta, così si chiamava, non ce l'aveva fatta a dire di no alle passioni del suo cuore. A dire di no alla vita incosciente ed idealista della lotta partigiana. Non potendo fare la staffetta a causa della sua fragile costituzione, offrì volentieri le sue capacità nell'elaborazione di volantini e materiale informativo che diveniva poi dispaccio per le staffette. Non seppe dire di no a quello strano sentimento che bussò pian piano nel suo cuore quando conobbe quel giovane dottorando in filosofia morale, all'ombra di un ciliegio in fiore, per una delle riunioni logistiche della sua brigata. Non seppe dire di no nemmeno all'idea di divenire madre pur continuando la sua carriera di geniale pittrice neorealista, a guerra finita. Si vede che il cuore, dopo tanti e strenui no, decise che la misura era colma. E quindi al quarto no, rispetto alla possibile venuta di Enrico, il cuore di Elisabetta decise che il suo conto con il mondo era chiuso definitivamente. La quantità d'amore data e ricevuta era abbastanza perché le palpebre di Elisabetta, percorse da lunghe ciglia da farfalla, non si spalancassero mai più.
Guglielmo, che all'epoca aveva sei anni e lottava con stoica risolutezza contro la sua malattia, aveva pensato, istintivamente, che il piccolo Enrico fosse nato sordo per non sentire gli urli atroci della madre nel suo personale travaglio dalla vita alla morte. In questo modo, pensava Guglielmo, Enrico avrebbe sempre ricordato quel volto pacato e radioso che lo strinse a sé poche ore dopo la sua nascita.
Fortunatamente, il professor Storti aveva uno stipendio di tutto rispetto per poter mantenere i due figli e le loro rispettive vocazioni, per Guglielmo la psicologia e per Enrico la matematica. Le loro menomazioni furono uno stimolo per i due ragazzi a voler sempre strafare in tutto ciò che implicasse un benché minimo lavorio del cervello: si ripugnavano per i loro fisici disfunzionali, ma la consapevolezza di avere un'intelligenza ben al di sopra della media costituiva una buona, né assoluta, né completa, consolazione. Colui che soffriva di più del suo infelice stato era, tuttavia, Enrico. Non poter mai sentire la voce autorevole e carezzevole del padre, le note della musica che avevano il potere di cambiare l'umore della gente, le sfumature delle voci a seconda delle emozioni del momento, la differenza tra la voce maschile e quella femminile... Tutto questo uccideva la parte di sé più ottimista ed estroversa, soffocandola del tutto. Nella matematica poté trovare un rifugio tutto suo nel quale intrufolarsi e non sentire quel vuoto dentro di sé. Quelle fughe dalla realtà divennero però un'arma a doppio taglio: se da un lato lo facevano sentire meglio, al sicuro, dall'altro costituiva una fucina inarrestabile di nuove paure, di nuovi mostri dai quali fuggire. Durante l'adolescenza, le comunicazioni tra l'interno di Enrico e l'esterno, il mondo, si interruppero drasticamente. All'inizio i medici pensavano ad una tardiva forma di autismo, per poi allarmarsi nel constatare che si trattava di una vera e propria crisi psicotica. Fu proprio in quel periodo che Guglielmo, ragazzo perspicace e brillante che, a differenza del fratello, sfruttò la sua menomazione rendendola un elemento sul quale fare dell'autoironia, un ente quindi di condivisione e non di separazione, decise di votare tutti i suoi sforzi intellettuali alla psicoanalisi. Non riuscì a sopportare la sua impotenza di fronte al male violentissimo del fratello minore, così mite ed affettuoso con lui, ora preso da convulsioni incontrollate ed atti feroci quanto inspiegabili di aggressività nei confronti dei suoi cari. Un giorno, Enrico arrivò persino a spintonare e a prendere a calci il padre perché gli aveva accarezzato i capelli. Cominciò a strillare, a dire che uno dei più noti sterminatori di vite umane stava attentando alla sua vita. Che se voleva sopravvivere doveva uccidere lui per primo, senza mai fermarsi. La ferocia delle sue percosse, fermate dalla morsa possente di un infermiere psichiatrico, faceva trapelare però nei suoi occhi una condizione di puro terrore. I medici, non sapendo se questa crisi psicotica sarebbe durata a lungo e non sapendo più arginare l'assoluta pericolosità di Enrico, procedettero con la lobotomia proprio quando Basaglia stava lottando per la liberazione dei manicomi. Gli occhi ormai opachi di Enrico erano il presagio di una morte che lo colse di lì a pochi mesi. Un giorno, gli infermieri di turno per la somministrazione dei pasti ai pazienti videro la camera di Enrico completamente vuota della sua presenza. La finestra aperta. Il cadavere di Enrico spappolato in una mistura di materia cerebrale e sangue, riverso nel cortile dell'ospedale.
Guglielmo non seppe perdonarsi di non aver capito prima la sofferenza del fratello. La psicoanalisi era un modo quotidiano per lui per chiedere scusa al fratello defunto delle sue inadempienze di fratello maggiore. Il suo mentore era stato chiaro con lui: finché non avesse smesso di trovare tutti i suoi pazienti alla stregua di tanti Enrico in procinto di ammalarsi di psicosi, Guglielmo non poteva fare psicoanalisi. Doveva tramutare la sua molla personale di interesse per la disciplina in scrupolosità scientifica. Trasferire energia mentale ed emotiva, sublimazione. Anche grazie all'amore che stava sbocciando con quel maschiaccio di Laura, una giovane psichiatra innamorata dell'etnologia e conosciuta nelle aule a gradoni dell'università, Guglielmo riuscì a superare il suo problema dopo un paio di anni e a conquistarsi progressivamente la fama di ottimo terapeuta.
Quel pomeriggio, quando quella giovane madre bionda si rivolse a lui per aiutare la sua bambina muta, adottata e con strane relazioni con i gatti, per un momento gli apparve il viso smagrito e dolce di Enrico. Scosse la testa come per mandare via una nuvola di fumo. Tirò un sospiro ed accettò di iniziare un cammino di analisi con quella bimbetta.

(continua...)

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