Romanzo (forse incompiuto) a puntate - Parte II (d)

(continuazione del primo capitolo)

Un giorno mi risveglio dalle mie frequenti pennichelle e scorgo, a poche coperte da me, due giganti. Entrambi mi trasmettono un sentore di giovinezza, forse perché tutte le volte che mi capita di osservare giganti dai capelli bianchi, dai volti grinzosi quasi quanto il mio e dalle voci a metà strada tra il rauco e il pacato, associo a questi ultimi alle rose avvizzite in qualche vaso vicino a me. La mia membrana ha fotografato distintamente il momento in cui sono state messe a mollo in quel vaso: la loro superficie era liscia e vellutata quasi quanto la mia prima coperta, i colori luminosi. Man mano che i giorni passano, i petali si contraggono e danno l'impressione prima di indurirsi, poi di divenire così fragili da disperdere velocemente i loro tessuti, i colori a scurirsi ed opacizzarsi. Dopo poco, quelle rose vengono sostituite con altre. Ecco, nella mia testa si è distintamente costituito il concetto che le cose hanno una loro durata, sancita da un inizio roseo e da una fine contratta. Mi pare che i giganti abbiano una loro durata, e quei due che si sono fermati poco lontani dalla mia coperta si siano allontanati da pochissimo dall'istante iniziale delle loro durate.
La ragazza in special modo. Le sue guance hanno un colorito quasi pescato, suggerendo che non poche volte sono arrossite di fronte ad un gesto improvviso, a delle parole inaspettate o a delle parole da dover pronunciare, a delle promesse mantenute di carezze. I capelli le arrivano alle spalle strette e sottili, di color corvino come la pelliccia di un simile del mio amico dagli occhi di giada che avevo intravisto in un calendario appeso ad una parete. Le ciocche mandano degli sprazzi di luce violacea, come se quei capelli fossero stati baciati dalla luce di una notte estiva. Guardandoli, dovrebbe essere piacevole farci scorrere lentamente le dita e a questo piacere non dovrebbero essersi sottratte le mani del ragazzo, a giudicare da come le cinge il fianco. Come il mio amico dal pelo fulvo faceva con la coperta.
Gli occhi sono due graziose ogive che ospitano il tepore della terra appena arata. Ma la loro espressione lascia presagire una profonda tristezza ed una fragilità in cerca di un abbraccio al quale abbandonarsi. Le piccole e sottili dita accarezzano le pareti della rigida coperta, ripassando i contorni del mini-gigante ivi racchiuso. La respirazione a tratti della giovane donna è un segnale che di lì a poco desidererò sapere che odore e che sapore abbiano le sue lacrime. E così il corpicino viene percorso da fremiti e contrazioni convulse. Le manine si fanno a coppa e nascondono fra di esse il visetto dagli sguardi indiscreti di una donna compiaciuta della severità con la quale osserva.
Subito il ragazzo scioglie la mano dal fianco cesellato della sua compagna, che deglutisce in un abbraccio. La ragazza fa aderire con grazia il suo corpo a quella sperata fortezza di ossa e muscoli. I fremiti dall'esterno sembrano più attutiti. Il lungo collo del ragazzo si piega ad arco, così che la sua chioma, fulva come il mio coinquilino di prima coperta, si mescola a quella della ragazza-bambina.
Anni più tardi, quando passeggerò mano nella mano con i miei due giganti preferiti nei pomeriggi domenicali d'autunno, il mio cervello ricomporrà all'istante quell'immagine ogni volta che mi appresterò a nascondermi nel folto delle foglie, ora rosse, ora gialle, che si spargono sul suolo scuro.
E quell'immagine si insinua con accortezza al posto di quella scena della ragazza che si contorceva e malediceva le manone tatuate, le quali scompaiono anch'esse dal ricordo per molto tempo, tanto da farmi credere, per tutta la mia infanzia, che dovevano essere proprio quei due ragazzi dal viso pulito i miei genitori biologici. La memoria umana è un trabocchetto per plasmare la realtà in un mondo per noi respirabile, e forse per una bambina quella convinzione si addice di più ad un'infanzia innocente.
Dalla mia prospettiva riesco a vedere i piccoli spilli azzurro cielo di lui, socchiusi in un'umida e solidale replica delle lacrime di lei. Dolcemente le sussurra (ma non così piano da non farsi udire dal mio finissimo apparato acustico di neonata): "Vedrai, la piccola sarà in mani sicure. La famiglia che si è presentata ieri è costituita da brava gente, che sa amare molto. La nostra bambina avrà una vita felice, con due genitori che potranno volerle bene a tempo pieno. Non è colpa nostra, ma noi siamo troppo giovani per poterle fare da padre e madre. Abbiamo di fronte a noi ancora anni di università e tu poi sogni tanto la carriera accademica. Nessuno di noi due sarebbe in grado di seguirla come meriterebbe. E ricordati che il pensiero di lei al sicuro ci conforterà nei momenti di scoramento. Il nostro amore non è un fuoco di paglia. Durerà, nonostante questo sbaglio, e quando sarà il momento potremo dare alla luce una bambina senza doverci rinunciare. Sarà bella come la mamma."
E le sue parole si chiudono in un lungo bacio di redenzione, come se entrambi chiedessero scusa a quell'altra bambina, nata così in fretta. Chissà se li perdonerà mai con quel bacio, oppure vivrà sempre con la sensazione di essere stata scartata, come una doppia nell'album delle figurine.
Quelle parole che lei mie orecchie filtrano innescano in me un cortocircuito. Il ricordo della mia nascita, della sua violenza mi si palesano davanti. La mia testa comincia a pulsare sempre più vorticosamente. E' come se quell'espulsione sia legata a qualcosa di accartocciato sgradevolmente in me. Forse le mani tatuate e quella ragazza dai lineamenti fini sapevano già  quale deformità avrei riservato loro. Quanta cattiveria avrei vomitato contro di loro. Di quanta stupidità si sarebbero vergognati in eterno. Sapevano che di lì a poco sarebbe uscito un demone del quale sbarazzarsi per non infestare la loro vita.
Di qui evitare il più possibile il contatto. Spingermi via, che lo volessi o meno. Repulsione fisica sia in via metaforica che in via concreta. Sommergo i miei ricordi confusi con la sensazione vergognosa di una spinta e li mescolo con le ultime parole fatali di quel ragazzo, che, inconsapevole delle conseguenze dei suoi atti su altri che non fossero la sua ragazza, va verso l'uscita del reparto tenendola a braccetto.
Dentro di me comincia a tessersi una ragnatela. Al centro, il ricordo violento, ancora fisicamente percepibile, della mia espulsione dalla vita semeiotica di una donna e dalla vita di una coppia. I fili di bava di quell'aracnide che è il pulsare delle mie tempie non sono abbastanza per tessere qualche altro esagono suddiviso in triangoli della vita di quella coppia precedente a me. L'unico sbaffo che mi serve per chiudere questo primo, fondamentale nucleo della struttura è la sensazione che la mia venuta abbia turbato quella felicità amorfa. Ed ecco profilarsi le mie indegnità ed inadeguatezza morale, fisica, intellettuale. Morale perché nata da un rapporto che non era finalizzato a procrearmi, ma che era parte del linguaggio, della semiotica di quella particolare coppia. Doppiamente inadeguata moralmente perché quest'ultima, a causa mia, è costretta ad inventarsi un nuovo codice di significazione perché la stessa "connettività di coppia" non collassi. A questa prima inadeguatezza si invischiano sensazioni tattili. Un senso di sporco che mi opprimerà i polmoni ogni volta che agirò solo secondo le mie necessità, i miei piaceri, seguito da un ossessivo desiderio di mondare queste mie impurità. Il più delle volte auto-punendomi, perché questa polvere, queste macchie le vedo soltanto io.
Fisica perché non essendo un frutto consapevole di amore, i tratti dell'uno e dell'altra sono stati sommati e fusi a caso, tali soltanto da vidimare la mia potenza distruttiva. Non c'è nulla in me che mi faccia percepire la bellezza ed il calore di un abbraccio o di un bacio. Solo il buio in una galleria dove c'è stato un incidente mortale. Il fato che spinge a capovolgere giornate di sole in acquazzoni, che porta alla discordia in una repubblica della mente fondata sulla serenità. Ogni mio difetto fisico, come negli atlanti medievali sulle mostruosità più o meno occulte, deve rimandare, in un tutto dotato di senso, alla mia colpa primordiale. Di qui la sensazione di non avere le gambe dritte come gli altri bambini, perché è la mia pigrizia a rallentare la crescita muscolare affinché io possa tormentare con più facilità i giganti che mi accudiscono. Provando gioia morbosa nell'ammalarmi, il fuoco della febbre sarà come un lauto banchetto di festa perché, da un lato, non potrò danneggiare il mondo, dall'altro potrò lamentarmi della mia imperfezione limitando quella delle giornate altrui. La salute cagionevole, la magrezza eccessiva, il visino smunto con le occhiaie, l'inappetenza , la difficoltà nell'addormentarsi, lo scompenso tra età e sviluppo in altezza, tutto questo è la lettera scarlatta che voglio esibire per risolvere la rabbia sorda che sento dentro di me.
Capelli, occhi, tratti che sfuggono a qualsiasi legge e categoria estetica come allegoria fenotipica della mia incompletezza. L'inadeguatezza intellettuale viene da sé, in quanto perfetto tassello mancante del quadro della mia mostruosità. Gli altri bambini saranno sempre più bravi e più svegli di me. Fondamentale è per me questa legge del contrappasso basata sui più e sui meno. Quei pochi più che potrei avere devono essere annientati dai tanti meno che ho. Tale inadeguatezza è come una scatola cinese che spiega sempre in modo implacabile i perché della me del passato, della me del presente e della me del futuro: espulsa in quanto inadeguata alla nascita, chiusa dentro le gabbie dei giudizi della gente in quanto inadeguata, anzi, sigillata per sempre. Brutte azioni passate che si accumulano con quelle odierne e con quelle del mio domani. Un continuo lavorio di purificazione che devo fare di me stessa per poter almeno respirare. Questi implacabili rovelli ed autoflagellazioni mentali esistono in me soltanto in potenza, generati da quel click che ha fatto la mia testa osservando quella giovane coppia di gigante. Ma saranno l'infrastruttura, il muro portante della mia esistenza da qui in avanti. Per ora, ho soltanto pensato che quei due giovani universitari fossero i miei genitori biologici, venuti per un'ultima volta a disperarsi del loro enorme sbaglio, cioè del loro piccolo mostro che ha attentato alla loro felicità, e che una volta, appena nacqui, provarono una repulsa tale per me da gettarmi nel gelo della notte. La loro perfezione, fatta di rosso e di nero, di sguardi pieni di amore e di compassione spicca insieme a quella della bambina nell'altra coperta (che, quando sarò più grande, sarà rappresentata da tutte le altre bambine, da qualsiasi bambina) che è stata preferita a me, emblema dell'imperfezione e della discordia.
E mentre il mio supposto padre biologico è così capace di articolare i suoni della sua gola in discorsi dotati di senso, io mi sento dentro ad una morsa che mi tiene sigillata gola, polmoni, cuore. Come lui riesce ad esprimere all'esterno i suoi sentimenti più puri, dalla mia piccola bocca sento solo un fiato gelido, privo di ogni contenuto.
Credo che la vista di quei due mi abbia completamente resa muta per non assordare il mondo con il disgusto che ho di me stessa. E così resterò. Ferma sulle mie posizioni, inscalfibile dalle categorizzazioni altrui e muta come sarebbe dovuto essere il ventre che mi ha generata.
La grossa tensione alle tempie si scarica in un rigurgito al quale affido la mia ultima esternazione di rabbia.

(fine del capitolo)

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