Romanzo (forse incompiuto) a puntate - Parte II (c)

(continuazione del primo capitolo)
Tra colloquio e colloquio, la casa di Elsa e Carlo stava prendendo forma e con essa la natura delle relazioni sociali che vi si svolgevano. Fu scioccante per i due apprendere che la sensibilità di certi loro amici non comprendeva la comprensione dell'adozione come esperienza di vita. Per certi, l'idea di adottare era una rinuncia estetica al desiderio "naturale" di poter studiare con narcisistica ammirazione la perfetta fusione dei propri tratti con quelli della persona amata. Una perfetta attestazione vivente della loro romantica unione! Nella stessa espressione "mio/a figlio/a" risuonava dolcemente l'idea di un possesso quasi divino con quel nuovo essere, "creato" da loro. Di qui le invettive infinite su quali qualità morali potevano trasparire da quel nasino ben cesellato, da quegli occhi vividi, ecc. Un elenco melenso di proprietà personali che, in quanto tali, dovevano attestare le buone qualità dei genitori e conservarle nel tempo, anche dopo la loro morte. Un sorriso ebete si dipingeva sulle loro labbra al pensiero di questo potere di eternità a loro riservato, sentimento analogo all'artista di quart'ordine che si considera e si proclama a destra e a manca come "il genio del tempo". A questo gruppo di narcisi innamorati dell'eugenetica, senza averne una conoscenza conscia, si accompagnava quello dei falsi anticonformisti. Falsi perché, in quanto amici di Elsa e Carlo, condividevano con loro certi stili di vita al di fuori delle mode del momento senza però rifletterne una reale convinzione idealistica. Questo genere di persone era persino più preoccupata dei giudizi altrui dei classici "conformisti": "Ma perché adottare? Perché far sì che il bambino soffra (perché le loro reali paure venivano mascherate da un agrodolce fidelismo) nell'essere additato come "diverso"? Cosa potrebbe poi pensare la gente sulla vostra supposta e bistrattata capacità procreativa (questa era  la reale motivazione che spingeva ad iniziare queste conversazioni)?" Inorriditi, questa è la concisa e perfetta descrizione di Elsa e Carlo in quei momenti. Inorriditi da visi fino ad un momento prima solidali per poi tramutarsi in stupefatti e perfino timorosi per la "pazzia" che stavano commettendo. Inorriditi da saluti sempre più frettolosi, da telefoni sempre più silenziosi, da cene conviviali sempre  meno frequenti. Inorriditi, soprattutto, da loro stessi che non erano stati capaci di discernere prima quelle menti brutali e meschine, magari pensando per anni che potessero capire certi loro moti emotivi. Per settimane Elsa e Carlo si incolparono della loro cieca stupidità, per poi lasciare adito ad una nuova lezione di vita, ovvero che non si finisce mai di conoscere veramente le persone, cosa che per loro anni prima sarebbe suonata soltanto come una frase fatta. A questa constatazione si unì il piacere di avere rinvigorito ulteriormente i restanti legami che si impreziosirono nei loro cuori.
La stessa "selezione naturale" si era verificata tra i parenti, anzi, più il grado di parentela era lontano, più era probabile che questa lontananza divenisse una voragine. Se non altro, l'armonia che regnava fra Carlo ed Elsa ed i loro rispettivi genitori ne uscì rafforzata, applicando alla perfezione il dettame di vita di questi ultimi sul fatto che ciò che rende felici i propri figli è anche fonte di gioia per loro stessi. La luce negli occhi di Carlo ed Elsa era la prova che anche per loro Iris sarebbe stata una gemma da accogliere.
Rimbalzando su quest'ultimo verbo si vuole attirare l'attenzione del lettore sul lato pratico del concetto espresso dal primo. Al diradarsi delle visite degli "amici" cresceva, proporzionalmente, lo spazio occupato da nuovi mobili: un muro divisorio era stato messo nello spazioso e luminoso studio di Carlo (che fungeva anche da angolo pittura per Elsa, dato che era percorso in tutti i lati da finestre dalle quali sfruttare il gioco di luci ed ombre da imprimere sulla tela) in modo da ricavare la cameretta color indaco di Iris. Quasi per oggettivare  le fantasie genitoriali sul futuro di Iris ecco fare la loro comparsa, giorno dopo giorno, di suppellettili fondamentali per sostenere quest'ultimo. Un'ampia libreria a muro sulla parete divisoria dove avrebbe potuto immergersi in mondi lontani senza dover pagare il biglietto. Un letto sopraelevato nel quale rifugiarsi per scrutare dall'alto le meraviglie del mondo ed impedire a chiunque di avere accesso ai propri sogni. Una di quelle scrivanie da architetti e fumettisti nel caso avesse voluto sfogare la sua fantasia e la sua brama di colori. In un canto, bambole, peluches e quant'altro da farle credere nell'animismo degli oggetti e nell'esistenza di amici immaginari. Infine, una culla che sarebbe stata il suo giaciglio finché non fosse stata abbastanza grande per arrampicarsi fin lassù. A fianco di essa, la cuccia di Groucho che ne aveva già preso possesso da un paio di settimane. Il tocco finale veniva dato dall'edera rampicante che contornava le finestre, come un invito a stare il più possibile in mezzo alla natura, ammiccamento del tutto inutile per una come Iris, come si è già visto all'inizio di questo capitolo.
Tutto era pronto affinché la farfalla uscisse dalla sua crisalide.


All'inizio quei due volti ansiosi al di là di quella strana coperta rigida e trasparente mi spaventano. Mi chiedo dove siano quella ragazza e quelle manone tatuate, ma è una domanda dai contorni confusi perché mi ricordo più odori e sensazioni tattili/uditive dei volti/immagini. L'unica eccezione sono le iridi verdi, tagliate e splendenti come giada, di quell'essere dal pelo rosso. Chissà dove può essersi andato a cacciare? Spero che abbia trovato una coperta più morbida e confortevole, oltre che un ambiente più tranquillo dove dormire.
Qui fatico a chiudere occhio. C'è sempre un via vai di giganti simili a quei due che fanno capannello dalla mia coperta e che mi guardano boccheggiando. Per ogni due, quattro giganti al massimo, c'è un gigante in scala ridotta dalle fattezze grinzose. Dato che questi mini-giganti si trovano anch'essi in coperte esattamente identiche alla mia, ne deduco spaventata che anch'io sono un mini-gigante. L'idea che la mia pelle sia così grinzosa e la mia espressione così poco intelligente mi fa rabbrividire. Non sono ancora nella fase in cui si riescono a dominare forti emozioni e a non lasciarle trapelare all'esterno, per cui a questa constatazione caccio uno strillo acuto ed iroso. Tutto sommato, ho una buona capacità di controllo rispetto ai miei simili, che disturbano il mio riposo più di cinque volte al giorno.
Il peggio è che non tutti emettono strilli espressivi, anzi, quelli che iniziano per poi smettere quasi più hanno un'irritante monotonia che più tardi uguaglierò ai ragli dei muli quando fanno i capricci. 
Ma la cosa che più temo sono i giganti bianchi. Quelli mi terrorizzano sul serio, di un terrore talmente immenso che non trovo neanche la forza di gridare. Tutti i giorni mi fanno male al braccio e dal buco che hanno provocato fanno scorrere dei liquidi densi dai colori opachi. In quei momenti è come se una parte di me si straniasse per lasciare quella pulsante e dolorante a sé stessa. Da quando esisto, ho stabilito il tipo di intenzione dei vari giganti nei miei confronti da come mi tengono stretta nelle loro mani. 
Le mani tatuate erano tese, imperlate di sudore, colpevoli. Le mani dei due giganti apprensivi trasmettono sempre un piacevole calore, intervallato da una poco spontanea delicatezza, come se avessero paura di rompermi. Un toccare-non toccare che mi esaspera perché mi sto rendendo conto che il calore della pelle dei giganti, e di quei due in particolare, mi crea un certo benessere ed un moto di attaccamento nei loro confronti. Calore uguale riparo sicuro.
Le mani dei giganti bianchi sono gelide, sicure di sé, quasi prepotenti. Mi sento come un essere inanimato quando loro mi prelevano dalla coperta vitrea. La loro stretta significa che tra un po' arriverà il male temuto, sempre diverso da sé stesso, dal sé stesso precedente, intendo. Le loro mani sono estensioni di altre strane coperte, tutte indefessamente fredde e rigide. Da lì escono sempre delle notizie riguardanti me che avranno poi delle conseguenze, quali più buchi al giorno nella pelle o più stupidi punteruoli colorati nella mia testa. Sembra sempre che siano alla ricerca di ulteriori cose che si trovano dentro di me e non sono mai soddisfatti di "quell'ulteriore". Anche se questo strattonarmi di qua e di là mi procura una buona scorta di sofferenza, ci sono mini-giganti con una sorte peggiore della mia. Mini-giganti nati insieme con una spalla, un bacino o, addirittura, un torso o una testa in comune. Quest'ultima varietà sopravvive molto raramente. Gli altri vengono sottoposti ad esami molto dolorosi che spesso hanno come esito i bisturi. Altri vengono lasciati così, a dipendere l'uno dall'altro. Mini-giganti nati con un sovrappiù o una mancanza di piccoli bastoncini che pare possiedano anche i giganti e che sento che i giganti bianchi chiamano "cromosomi". Questa loro stranezza la si riscontra nelle dimensioni abnormi della testa, in arti pressoché inesistenti o in "ritardi mentali" come ho sentito da queste parti. Pare che essere "stupidi" sia una delle categorie peggiori per poter sopravvivere nel mondo dei giganti. Quelli di questi che si recano regolarmente dai mini-giganti sfortunati spesso reagiscono male. La loro sofferenza deve essere incontenibile, mi sembra che le loro grida siano così animalesche e disperate da non lasciarmi il tempo di concepire la vastità del male che provano. Dopo le urla e i singhiozzi, questi giganti, che fanno fatica a reggersi in piedi, si dividono in due categorie, non saprei quale delle due predomini: chi se ne va e non torna mai più; chi resta, ma va e torna con il viso completamente cambiato. Sguardi torvi, vuoti, disorientati, irosi, spenti che prendono il posto di sguardi speranzosi, concentrati, con qualcosa che conferiva loro pienezza. Bocche strette, oblique, tremanti, inacidite al posto di bocche distese che si concedevano qualche sorriso di fragile ottimismo. Andature lente, posture curve al posto di camminate armoniche. Vestiti dai colori lugubri e poco curati al posto di vesti che conferivano espressività e vitalità ai loro corpi.
Poi ci sono quei mini-giganti che non hanno mai un pubblico di fronte a sé da quando sono stati messi nella coperta rigida. I loro strilli sono in larga misura richieste di attenzione, richiami: "Ehi, giganti laggiù, si sarei anch'io da vezzeggiare e guardare con sguardo ansioso! Venite qui!" Una volta che i giganti bianchi hanno deciso che è tempo che escano dalle loro coperte rigide, li vedo presi da altre mani fredde, dai modi formali. Saprò poi che questi giganti sono assistenti sociali e che i mini-giganti o vengono messi negli orfanotrofi, o vengono dati ad altri giganti, anche se non sempre le loro coperte sono calde e confortevoli.
Le mani di una distinta categoria, a metà strada tra i giganti bianchi e i giganti formali, sono tiepide, calorose quasi come quelle dei miei due giganti, ma prive di quell'apprensione. Mani fatte apposta per sviluppare un attaccamento provvisorio, una palestra per quell'attaccamento che anelo di più. Anche se poi quelle mani a volte mi fanno male sotto gli ordini dei giganti bianchi, sapere che ad orari regolari verranno lì a prendermi mi dà un certo senso di sicurezza. Confusamente, cercando la loro stretta, mi vendico dei miei due giganti che ogni volta che si arriva all'apice del calore mi depongono e spariscono. Tutte le volte che accade, come se fosse la prima volta, il mio stomaco comincia a bruciarmi e mi scappa un grido di risentimento. La volta dopo ricerco nella preoccupazione dipinta nei loro volti la giusta punizione per non essere stati lì con me a sufficienza.
Questo continuo entrare ed uscire dalla rigida coperta mi impedisce, paradossalmente, di poter esprimere più di tanto il mio calore affettivo e corporale agli altri, così come di poter capire che consistenza hanno quei capelli che seguono ritmicamente gli scossoni o i cenni del capo, che sapore e che odore hanno le lacrime che escono dai loro occhi. In mancanza di meglio, mi affido alle capacità ancora scarse della mia vista e le metto al servizio della mia immaginazione.
La mia attenzione viene catturata soprattutto dallo sguardo dei giganti. E' stupefacente la vasta gamma di emozioni e pensieri che si specchia su quelle due pozze umide dai colori assortiti.

(continua)

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