Romanzo (forse incompiuto) a puntate - Parte III (e)

(continuazione del secondo capitolo)

Mi crea un enorme dispiacere vederli preoccupati per me. So che vorrebbero che io cominciassi a parlare, a chiamarli "mamma" e "papà" ma non riesco a fare uscire nulla dalla bocca.
Ci ho provato, ho fatto degli esercizi di respirazione insieme a Groucho, ho osservato le labbra dei giganti emettere rumori, quel meccanismo che inizia dai polmoni, rimbalza nella gola, per poi schioccare nel palato grazie a quel particolare archetto acustico che è la lingua. Ma tutte le volte mi assale un senso di nausea molto violento.
Rabbia per quelle persone che scuotono la testa quando mi vedono in compagnia dei miei genitori. Rabbia per quegli occhi indagatori dell'assistente sociale che mi scuoiano la pelle e mi smuovono le viscere. Rabbia per tutte quelle madri che non vedono l'ora di mostrare le somiglianze fisiche con loro, che, con un sorriso a quattro palmenti, esclamano quanto sia meraviglioso il fatto che sia il loro figlio. Come se ci avessero posto un cartellino sopra con le loro iniziali. Donne che trovano della massima importanza certificare questa loro "proprietà" con racconti dettagliati e privi di ogni pudore sulle circostanze della nascita dei loro bambini. Rabbia per quelle coppie di giganti che, pur di non perdere il "diritto sacrosanto" di fissare per sempre nel tempo il loro amore con un prodotto di loro proprietà esclusiva, si appellano ai miracoli scientifici della fecondazione assistita, magari fregandosene bellamente del fatto che un giorno i loro ragazzi si sentiranno alienati in quanto "prodotti di laboratorio". Rabbia per quelle donne che credono che l'unico modo per manifestare la propria femminilità sia essere madri, non importa se si sia pronte o meno per le responsabilità che ne conseguono. Rabbia per quelle ragazze che, pur di avere la parvenza di essere amate, cedono i propri corpi per rapporti occasionali.
Rabbia per il fatto di essere consapevole di essere il frutto di un rapporto occasionale non protetto.
Rabbia nel constatare quanto le mie amate parole, che ormai imparo anche senza Groucho, possano anche causare tanto dolore. Perché le parole, anche se ti permettono di farti capire, di trasmettere agli altri ciò che senti pulsare nella testa e nel cuore, sono anche enormi, gigantesche scatole di cartone che imbrigliano frammenti di essenza, di vita, soffocando la loro luce interna. Per cui cessi di essere quell'essere umano, quel fascio di muscoli e nervi che percepisce la varietà del mondo attorno a sé stesso in combinazioni sempre diverse, sia rispetto a quelle precedenti, sia rispetto a quelle elaborate dagli altri fasci sinaptici e muscolari che si consociano con esso. Diventi "introversa/o", la/il "figlia/o di genitori divorziati", la "civetta", quella/quello "strana/o", la/l'"intellettuale", la/il "rozza/o", la/il "povera/o", la/l'"ignorante", la/il "borghese", la/il "donna/uomo di successo". E quando smetti per un attimo i panni di quell'etichetta, ti attiri la disapprovazione degli altri, la sensazione di essere considerato un traditore dai tuoi consimili. Quando tu vorresti essere solo compreso nella tua essenza unica e data per sempre, per sempre sfuggente.
Rabbia per quelli che, non avendo il coraggio di prendere la decisione di uscire dalla propria etichetta, attuano dei compromessi per mezzo dell'inganno o dell'ipocrisia, una sfumatura del primo. Come tutti quei padri di famiglia che riempono di botte i propri figli, ma pretendono da loro ottime pagelle perché devono dimostrare riconoscenza verso tutte le gocce di sudore spese per garantire loro un tetto sotto il quale proteggere la propria testa.
E' come se la mia ugola fosse incollata al palato e la trachea sigillata per non sconvolgere il mondo con la mia rabbia inarrestabile. Per cui non mi resta altro da fare che riversare tutto negli occhi e nella comunicazione telepatica con Groucho e i suoi amici. Non so per quale meccanismo, però mi sento capita veramente solo dai gatti. Anche loro non mentono: se un gigante non va loro a genio, semplicemente levano le tende. Non scendono a compromessi e preferiscono farsi disprezzare che fare la parte degli animali devoti al padrone se questi non merita nemmeno tale appellativo. Ho quindi detto a Groucho di insegnarmi anche il linguaggio dei gatti, in modo da poter rendere più espressiva la mia telepatia. Si sono spalancati orizzonti meravigliosi, melodie armoniose e mai artificiose. Parlare il linguaggio dei gatti è come suonare un violoncello. Contiene tutte le sfumature del tuo cuore. I miei genitori quando mi sorprendono a parlare in questa lingua, rimangono sempre esterrefatti. La loro pelle sa di paura. Si vede che non sanno come prendere il fatto che la loro figlia, che ha già tre anni, non si comporti come una bambina della sua età. Deludere le loro aspettative è per me come una conferma di quel che è capitato quando sono nata: io sono una mentecatta dell'affetto, prima o poi la gente che mi vuol bene se ne accorgerà e mi butterà via, come hanno fatto quei due giovani quando si sono imbattuti in me.La cosa, invece di spronarmi a superare gli steccati di rabbia che mi tengono murate le labbra, non fa che intensificare l'impossibilità di rompere il mio mutismo. Così piccola, e già così arrabbiata con me stessa e con il mondo. Chissà quando sarò adolescente: esploderò, sarò una scheggia impazzita nel panorama dei giovani brufolosi e tormentati dagli ormoni, oppure imploderò, chiuderò ulteriormente il guscio nel quale mi sono rintanata ora?
Questi pensieri, a volte, non mi fanno prendere sonno. In queste circostanze, mi capita di sentire frammenti delle conversazioni dei miei giganti e non ce n'è uno dove non risuoni il mio nome. Ogni volta che lo sento pronunciare da loro, che siano arrabbiati o preoccupati, sereni o felici, avverto sempre dei giri di basso ed una melodia che parla di carezze, di coperte rimboccate.
Un giorno in cui non riesco a chiudere occhio, vedo il viso di mia madre reso azzurrino dallo schermo di un computer. All'improvviso noto una strana luce nei suoi occhi. Si vede che non riesce a reprimere un sorriso che canta vittoria. Afferra un block notes lì vicino e si appunta un numero di telefono.
Da quel numero si risale ad un viso noto, che ha cambiato varie volte residenza, e a quel viso noto, alle idee che circolo nella testa della proprietaria di quel volto, si aggrappano le speranze di Carlo ed Elsa. Non fanno che parlare di questa Zoe, pare che lei abbia la gru da demolizioni giusta per il mio muro sapientemente cementificato e piombato. Visto che Elsa sa benissimo che, quando sono consapevole che le nostre uscite fuori di casa hanno come finalità uno scambio sociale con altri esseri umani, impunto i piedi e mi si scurisce lo sguardo, quella mattina ha deciso di truffarmi comprandomi uno di quei frappè alla fragola ai quali non so dire di no. Il programma delle abitudini inserito nel mio cervello, inebriato da quel sapore zuccheroso, mi fa credere che oggi sia il giorno della passeggiata al parco, dell'erba tenera sotto la pianta dei piedi e tra le mie mani, piccoli trivellatrici ambulanti. E invece no. Dopo la sosta al chiosco dei gelati, Elsa non mi prende per mano, non svoltiamo nel vialone dei tigli profumati, non sostiamo nelle sponde del laghetto ad osservare le anatre. La mano di Elsa mi riconduce alla macchina, mi infagotta nella cintura di sicurezza. Comincio a capire di essere stata turlupinata e piccole gocce di sudore mi imperlano la fronte. Scalcio di qua e di là, la schiena si inarca rigidamente, come un grosso punto esclamativo colmo di risentimento. La bocca si piega verso il basso per ribadire il concetto. Elsa se ne accorge, si mordicchia il labbro inferiore, segno di sentimenti contrastanti che le si agitano dentro.
Ma questo non la ferma. Nessuna inversione. Ad un certo punto sterza, frena e spegne il motore. Controlla un attimo di avere nuovamente un viso neutro, dominato, guardandosi nello specchietto retrovisore. Il suo braccio destro si arma di pazienza, raccogliendo tutta la forza necessaria per disarcionare il mio arco corporeo, sciogliere i ceppi della cintura di sicurezza. Per fare prima, mi prende direttamente in braccio. 
Dopo la solita procedura da "visita in casa di estranei", mi mette a terra e mi tiene per mano. Entriamo in uno studio luminoso, pieno zeppo di giocattoli. Di quelli mi importa poco, ciò che mi attira è quel gigantesco e morbido tappeto al centro della stanza. Ci viene incontro quella Zoe che comincia a scrutarmi con interesse, direi, da entomologa, una luce entusiastica e quasi fanatica le passa da parte a parte gli occhi grigi ed aguzzi. Sento la stretta della mano allentarsi e, di punto in bianco, trovarmi da sola in quello studio con quell'esagitata. Questa non mi stacca gli occhi di dosso, con i piedi disegna tanti simboli dell'infinito sul pavimento. Si allontana e si avvicina a me, come un fotografo o un pittore en plein air che vuole mettere a fuoco un dettaglio. Tutto questo mi innervosisce tantissimo. Mi chiedo cosa voglia da me in realtà. Strappo da un cilindro di pongo qualsiasi che trovo lì un po' di materia e ci do' una forma sferica. In questo modo voglio accontentarla facendo finta di essere una treenne standard.
Una manciata di secondi per rendermi conto che sto perdendo la dignità per accontentare un gigante che ha ancora il cuore sconosciuto. Una manciata di secondi per farmi venire una rabbia senza precedenti. Una manciata di secondi per trovare una fuga sotto al morbido tappeto ed intanto osservare le prossime mosse del nemico.

(fine del secondo capitolo)

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