Romanzo (forse incompiuto) a puntate - Parte III (d)

(continuazione del secondo capitolo)

Dopo quel rigurgito rabbioso, le forze mi abbandonano del tutto. Buio pesto. Riapro gli occhi e sento un ronzio sordo nelle orecchie ed un intorpidimento nelle membra. Segno che ho dormito molto. La sensazione seguente è molto strana. Le mie coordinate spazio-temporali completamente perse. Mi sento incapsulata diversamente dentro ad una coperta piacevolmente calda ed una membrana più dura che la cinge.
Giro con difficoltà la testa a destra e a sinistra e mi ritrovo in una stanza dalle ampie vetrate e pareti lillà. In lontananza sento un gridolino di felicità femminile per poi vedere comparire davanti i miei giganti. E' strano. Forse perché questa coperta non è chiusa né sopra, né ai lati, le dimensioni dei due giganti mi sembrano meno minacciose. Cominciano a parlarmi in falsetto (che ridicoli!) per poi cacciarmi in gola, quando meno me l'aspetto, un coso di lattice che perde una sostanza calda. La mia bocca, non abituata ad altre attività oltre che a strillare ed ustionata da quel liquido, la rigetta convulsamente. Vedo dipingersi un sentimento di delusione nei volti dei miei due giganti. Siccome mi è penosa questa vista, riprendo il coso gommoso ed aspiro con tutte le mie forze il contenuto, così che i giganti possano riprendere colore nelle guance, fare un'altra serie di stupide moine e poi dileguarsi per lasciarmi in pace.
Nelle narici non sento più il solito odore di varichina e di altri disinfettanti, quanto un odore di biscotti appena sfornati (tutte informazioni che decodificherò in un futuro prossimo) che mi concilia il sonno. Le palpebre tornano pesanti.
Di nuovo, dopo un terzo del tempo dell'altro sonno, riapro gli occhi e mi imbatto in quei due gioielli di giada che a volte sognavo nel periodo della coperta rigida. Improvvisamente, sento che il coso rosso e peloso comincia a parlarmi, ma senza aprire le fauci punteggiate di vibrisse: "Ehi, ma tu non sei quel bipede con il quale mi sono messo a disquisire sul concetto di futuro per esorcizzare il fatto che di lì a poco saremmo morti assiderati?"
Sorprendendomi io stessa, mi scopro a rispondergli sempre con il cervello: "Credo di sì. E tu devi essere quello strano coso di pelo rosso dagli occhi di giada che cercava di assorbire più calore possibile."
"Prego? Se mi permetti, non sono "quel coso di pelo rosso" ma un esemplare molto giovane di gatto."
"Uhm, buono a sapersi. Sono stufa di dover sempre usare termini come "questo", "quello" o "coso". Il fatto è che finora nessuno si è mai degnato di insegnarmi i nomi delle cose. O sproloquiano strani codici parlottando tra loro e guardandomi di sottecchi, o mi parlano come se fossi una deficiente con una voce ignobilmente stridula."
"Eh sì, l'avevo notato anch'io. Quelli della tua specie in versione maxi non devono essere molto svegli."
"Via, non facciamo di tutta un'erba un fascio, ci sono parecchi come me che sanno solo frignare e chiedere ogni secondo di essere alimentati, come se non fossero abbastanza cicciottelli. Ehi tu, come mi trovi?"
"Intanto, devo informarti che non mi chiamo "tu", ma che il tuo maxi in versione maschile ha deciso di appiopparmi il nome di "Groucho" in onore di un comico ebreo-americano quattrocchi e baffuto. Deve essere per via del fatto che le sue battute e il suo humour cementificano il suo orgoglio ebraico."
"...?"
"Lascia stare, capirai dopo tre giorni di convivenza con loro che, tra parentesi, si chiamano Carlo ed Elsa, mentre per te hanno destinato il nome di Iris, un fiore color indaco-violetto reso celeberrimo da pittori come Van Gogh..."
"Devi essere uno dei pochi gatti pedanti e noiosi che abbia mai avuto la sfortuna di incontrare! E poi non hai ancora risposto alla mia domanda, dacci un taglio e spara!"
"Vedo che il tuo periodo in ospedale ti è servito moltissimooo per consolidare la buona educazione, a quanto pare."
"Ah, ah, spiritoso come quel Groucho vattellapesca."
"Visto che la mia sottile ironia non è di gradimento e Vossignoria preferisce non perdersi in convenevoli, andrò dritto al sodo."
"Ecco, vedi che impari in fretta!"
"Peggio per te Iris, ti presenterò la verità nuda e cruda, invece di indorarti la pillola."
"Fai quel che credi, a me interessa poco. Basta che ti spicci."
"Ok, allora, sei un ammasso di rotolini di grasso, dalla testa enorme e ricciuta, gli arti piccoli e, anch'essi, infossati in rotoli di ciccia, il tutto incartato in una ridicola tutina con renne astigmatiche ed alcolizzate, a giudicare dal loro naso rosso. Ah, dimenticavo. In testa hai una cuffietta con un abominevole pon-pon e con dei ricami altrettanto abominevoli, di tre piccoli paperi antropomorfizzati e per giunta dalle zampe storte."
"Che elenco impietoso di cose disgustose!"
"Beh, te la sei voluta."
"A dir la verità, la tua descrizione non è molto lontana dai quadri impietosi che mi sono fatta dei miei simili. Però la tua è sicuramente più efficace e graffiante. Neanche a me piace il buonismo svenevole, perciò ne deduco che sei davvero un bravo oratore."
"Non c'è di che ragazza mia."
"E se mi insegnassi tu le parole, così da ampliare il mio scarso vocabolario da neonata svergognata?"
"Con piacere. Hai fatto un'ottima scelta a chiederlo a me invece che ai tuoi maxi, saresti capace di nominare per anni le tue scarpe con la dicitura "peppe", rivolgerti a qualsiasi essere di sesso femminile con il termine "dada". Insomma, faresti la figura della sociopatica senza saperlo."
"Vomitevole, davvero vomitevole. Adesso avrei di nuovo sonno (perdiana!), perché non viene a scaldarmi con quella stufetta personale che ti ritrovi? Dobbiamo essere entrambi riposati per questo genere di lezioni."
"Mi trovi d'accordo, anch'io sento il dovere di espletare la mia pennichella quotidiana."
Sento di nuovo quel tepore conosciuto, che mi riporta a quel gelo, a quella mano. Mi addormento e sogno il viso di mia madre, o, almeno, quella che mi ha espulsa dal suo corpo. Ho una vaga idea del concetto di "bellezza femminile", però mi sembra davvero bella, se non fosse per quel brillantino al naso e qualche ciocca verde evidenziatore tra i capelli bruni. Gli occhi un arabesco viola. Le guance segnate da beffarde fossette. La bocca piccola e a cuore. Qualcosa in lei mi dice che è poco più di una bambina. Ma il mio sguardo nel sogno non può indugiare a lungo su quei tratti, che vengono squarciati da un enorme ragno nero e fetido che risale dal palato della ragazza per poi occupare tutto lo spazio visivo. Quel ragno orripilante sono io. Mi risveglio madida di sudore e lacrimante, il pelo di Groucho a contatto con la mia guancia destra comincia ad inumidirsi. Un piccolo tremito percorre il corpicino di Groucho, il quale comincia a stiracchiarsi in modo seduttivo.
"Brutto sogno, Iris?"
"Sì, credo di sì."
"Ha a che fare con quelli che ci hanno messo insieme nella coperta?"
"Direi di sì Groucho, ma non ne voglio parlare."
"Capisco... La prossima volta, però, avvertimi prima di bagnarmi il pelo. Che so, dandomi un piccolo calcio. Voi umani vi muovete sempre nel sonno, perciò premurati di farlo in "quei momenti"."
"D'accordo mister vanità." dico sospirando mentre guardo Groucho leccarsi via le mie lacrime dalla parte del manto fulvo interessata.
Probabilmente, nello svegliarmi devo aver emesso qualche rumore da neonato, perché vedo arrivare Carlo con gli occhi pesti. Effettivamente non è ancora l'alba. Ma richiudo subito gli occhi.
La mia conoscenza dell'assistente sociale mi riporta alcuni flash di ospedale alla mente e a quel tipo rapace di mani. Sento il mio piccolo corpo tremare. Ne ho sacra diffidenza. Lei ha sempre l'agenda aperta ed alterna di continuo rapidi appunti, occhiate scrutanti e domande ad Elsa e Carlo. Anche se Groucho ed io sappiamo bene che nessuno può sentire le nostre conversazioni telepatiche, quando viene l'assistente sociale interrompiamo all'istante qualsiasi comunicazione. Non sia mai che mi veda con lo sguardo distratto e non intento a ricambiare l'amore dei miei genitori adottivi...! Dal momento che i miei due giganti, parlantina squittente a parte, mi piacciono, voglio contribuire anch'io alla lotta contro il giudizio negativo di questa donnina, minuta ma dai nervi tesi come corde di violino e gli occhi a fessura.
A volte penso che lei non sappia più cosa inventarsi per farsi passare il tempo. Evidentemente, una famiglia sociopatica è un ottimo esercizio, quasi eccitante, di messa alla prova delle proprie capacità, mentre una famiglia coesa deve essere una noia tremenda per un'assistente sociale. E allora, ecco che si accumulano nuovi parametri da verificare, pur di dare un senso a quelle visite, come i millimetri di latte somministrato alla sottoscritta, la disposizione e il tipo di giocattoli in camera mia. Meno male che non ha pensato alla modalità di relazione della bambina con gli animali domestici. Fossi un'assistente sociale, sarei partita proprio da lì, ma si vede che questa qui ha poca immaginazione. Tutte le volte che se ne va, l'energia spesa per anticipare le sue mosse mi fa sentire una palpabile stanchezza, alla quale segue un riposino lungo e stranito.
Mi piace sentire l'odore dei miei giganti. Ho visto come fa Groucho quando gli danno pappe nuove o quando trova un oggetto mai visto prima per terra. Mi sembra un ottimo sistema investigativo. Gli odori non sanno mentire così facilmente sulle emozioni che si provano in quel momento. Gli adulti hanno imparato a celarsi con le loro altre caratteristiche corporali, persino con gli occhi: a volte, le persone più ansiose sono anche quelle che sembrano più sicure e controllate nei movimenti, uno dei saggi detti di Groucho tra una lezione di glottologia/etimologia e l'altra. Anche se ha la mia stessa età, Groucho dimostra una maturità superiore, sarà per la storia delle sette vite in più, non saprei davvero spiegare quest'arcano, mi limito ad accettarlo e basta. Effettivamente, chi non teme di farsi vedere pauroso o preoccupato, chi non ha paura di essere additato come tale quando prova ansia, è anche chi sa che le sue paure non sono costitutive, non divengono parte delle sue fragilità "permanenti". La capacità di dissimulare deve essere nata con la madre di tutte le paure, ovvero l'opinione degli altri su noi stessi. E a quest'opinione vengono legate svariate aspettative personali: più piaccio agli altri, più mi piaccio, pare essere il mantra che guida quella popolosa massa colpita dalla fobia di "fare una buona impressione".
Comunque, per riprendere il filo delle sensazioni olfattive dalle quali sono partita, la paura non si può lavare via con una doccia. La paura ti rimane attaccata e la pelle sembra promanare la sua naturale fragranza con moti carbonari, nascosti ed emessi di scatto. Si ha inoltre una sensazione ferrosa, densa, pesante, come se si fosse fermato il sangue. I follicoli sembrano arrestati da una brina novembrina.
La felicità ed altri sentimenti positivi trasmettono invece un senso di pace, come coperte fresche di bucato, sotto le quali ti infili per dormire. Solitamente, la pelle di Carlo ed Elsa quando mi tengono in braccio sa di felicità. Se per caso inizio a tossire, a non mangiare o ad avere delle coliche, ecco che la pelle da ansia fa capolino in modo repentino. La stessa ansia che percepivo nei loro sguardi.
Come ho detto prima, gli sguardi possono anche mentire, o, meglio, gli sguardi vengono traviati dalle parole. Amici di Carlo ed Elsa che dicevano di amarsi ma che avevano occhi da "non provo più nulla per te". Persone in strada che dicono, guardandomi mentre sono dentro al passeggino: "Ma che bella bambina!", mentre leggo nei loro occhi sconcerto. Sconcerto perché, a quanto pare, non ho un colore definito, né dei capelli, né degli occhi. I miei invece sono conseguenti a quello che penso, forse è per questo che non "mentono" e che non si stabilisce quella confusione, tipica degli adulti, tra "linguaggio del corpo" e "linguaggio vero e proprio". Solitamente non avere la capacità di fingere dovrebbe essere una prerogativa dei bambini, ma io non ragiono come un bambino. Le domande sulla morte che fanno i figli degli amici dei miei giganti quando vengono a cena da noi sono molto meno complesse di quelle che io pongo a Groucho. Poi c'è anche da dire che provo un forte sentimento di disprezzo nei confronti degli adulti che mentono.
E non riesco a fermarmi, non riesco proprio a mettere uno steccato tra il risentimento che sento montare dentro di me e una maschera opaca che non riflette nulla di tutto questo all'esterno. E' come se, attraverso gli occhi, riuscissi a buttare fuori tutta la rabbia che sento dentro di me. Un po' come quando si sta così male che vomitare è l'unica soluzione per provare un po' di sollievo. Avverto il disagio di Carlo ed Elsa rispetto a questi "sfoghi oculari", ma è più forte di me. 

(continua...)

Commenti

Post più popolari