Romanzo (forse incompiuto) a puntate - Parte II (b)
(continuazione del Capitolo Primo)
Il parallelo metaforico con la farfalla può essere ribaltato: così come ci sono persone che si lasciano affascinare dai colori iridescenti delle ali di questi insetti e persone che vedono quelle stesse iridescenze come segnali di comunicazione che l'animale instaura con l'esterno, così Iris veniva vista come un singolare caso clinico, e non come una potenziale nuova icona del femminismo, dai medici dell'ospedale. Per loro Iris era innanzitutto una serie di numeri attestanti il suo grado di salute, poi ecco il volto trasfigurato di Iris nelle boccette di nutrienti che le venivano somministrati per endovena. Ogni goccia era un ulteriore passo avanti per arrivare a "valori stabili". Per meglio dire, Iris era una sfida lanciata alle menti brillantemente scientifiche dei camici bianchi. E il compito consisteva nel portarla ad un peso e ad una crescita sufficiente per una vita fuori da quelle pareti vitree. Una vita che si sarebbe poi ripresentata, con scadenze regolari, nel dirimere i suoi problemi biologici. Curare come sinonimo di mantenere in vita il più possibile. E se per caso quella vita non fosse stata meritevole di essere vissuta così a lungo o fosse mancante di qualche parametro che ne attestasse la buona qualità, beh, quello non era un problema che spettava a loro risolvere. La moderna civiltà occidentale con la specializzazione dei mestieri e la scomposizione della sofferenza in più tratti distintivi tra loro apparentemente inconciliabili li aveva sgravati da innumerevoli scocciature etiche.
La crisalide di vetro nella quale avevano rinchiuso Iris doveva essere una macchina pulsante ed efficiente nel portare a termine la missione, anzi la "commissione" che bisognava svolgere. Porsi il problema se una scatola di vetro non sarebbe mai stata in grado di restituire il calore materno e quindi la prima nozione di amore, era un qualcosa di trascurabile.
Piuttosto, Iris veniva scrutata giorno e notte perché con la sua stranezza poteva costituire un tassello importante per il progredire della Scienza. Sulla sua piccola fronte erano stati appuntati dei trasmettitori per la ricezione dell'attività cerebrale della bambina. Su anonimi monitor, venivano proiettate le aree cerebrali usate da Iris durante il sonno e quelle nei lassi temporali in cui era cosciente.
La neonata usava emisferi completamente diversi da quelli normalmente osservabili dalle attività neuronali umane ma, incredibilmente, i test condotti su di lei non avevano rivelato alcuna anomalia o ritardo cerebrale. Iris rispondeva anzi in modo molto ricettivo alle stimolazioni facendo presagire un quoziente intellettivo ben più elevato della media. Di qui la costante somministrazione di nuove analisi, cercando di mettere al microscopio il più possibile quelle "anomalie" per poterle tramutare o in un nuovo e succulento capitolo delle neuroscienze o in un programma terapico idoneo per tenere sotto controllo le capacità di Iris che potevano "danneggiare l'incolumità" dei suoi simili.
Questa dispotica tirannia mascherata da disinteressato interesse scientifico veniva accettato, anche se con qualche riserva, da Carlo ed Elsa. Il fatto che nessuno dei due si fosse mai interessato di argomenti scientifici li faceva sentire impotenti di fronte alle ampie conoscenze dei medici. D'altronde, sia loro che questi ultimi condividevano l'obiettivo comune di far uscire Elsa da quella cappa di vetro. Ostacolare i piani dei dottori poteva comportare il rischio di ritardare l'attesa e sperata venuta di Iris a casa loro.
Nel frattempo, dal tribunale era arrivato un esito positivo per il decreto di adottabilità, a condizione però che seguisse prima un periodo affidatario nel quale erano previste frequenti visite delle assistenti sociali per poter formulare un quadro rassicurante della situazione.
La commissione che aveva steso il verbale aveva infatti espresso preoccupazione riguardo ai trascorsi di pesante anoressia della signorina Elsa, temendo che il suo rapporto problematico con il suo corpo e le possibili tensioni edipiche irrisolte con la madre potessero poi dare adito ad un rapporto ambivalente con la figlia, quanto mai scongiurabile in una bambina che era già stata abbandonata in un modo così violento. Sicuramente, il lettore si starà stupendo del fatto che, con una diagnosi del genere, Carlo ed Elsa avessero ottenuto il decreto.
In realtà, questo giudizio era stato espresso da un unico membro della commissione, una psichiatra-psicoterapeuta di indirizzo kleiniano nota a tutti per le sie diagnosi alquanto rigide e in gran parte attribuite a priori. Ma la sua competenza ormai sorpassata e polverosa passava in secondo piano per l'enorme potere accademico e politico che era riuscita ad accumulare con astuzia, prima con un matrimonio di convenienza con un decano della psichiatria, nonché primario di una rinomata (ed esosissima) clinica svizzera, ormai stanco dei grattacapi professionali e sprofondato in una crisi senile senza speranze, nella quale i principi etici e professionali così rigidamente applicati in gioventù e all'apice della carriera venivano messi da parte per dedicarsi a piaceri più terreni, come le affettuose premure di quella giovane ed attraente assistente dai tacchi a spillo. Ancora prima di ottenere la cospicua eredità del vetusto ma "tanto caro" maritino, il conseguimento del ruolo di primario, una volta che l'"adorabile" coniuge andò in pensione, fu cosa naturalissima. Aggiungeteci qualche apparizione in TV in veste di esperta di "disagi giovanili" e politici eminenti tra i suoi pazienti sul lettino psicoterapico ed otterrete una misura del suo potere decisionale in quella commissione.
Ma quella giovane, irritante "nevrastenica", della quale invidiava la chioma chiara e splendente (ebbene sì, anche questa virago senza scrupoli aveva avuto turbe infantili, sentendosi spesso inadeguata di fronte alle sue amichette bionde baciate dal sole), era riuscita a fare un'ottima impressione al resto della commissione, per la quale il suo senso materno, unito alle ottime capacità empatiche ed introspettive, era considerato assolutamente adatto al caso. Di qui comprenderete come quella clausola non fosse altro che un contentino per placare le ire della psichiatra, saette che avrebbero potuto comportare la decurtazione di stipendi o, peggio, l'eclissi dall'albo degli psicoterapeuti e il licenziamento in tronco.
Elsa per la prima volta nella sua vita era riuscita a sostenere gli sguardi dei suoi "esaminatori". Anche se l'adolescente timida ed insicura tremava dentro di lei, era molto più forte la volontà di stringere tra le sue braccia Iris. E, mentre in altre circostanze il suo passato da anoressica aveva sempre congelato o interrotto bruscamente le conversazioni, in quanto leggeva nelle domande dei suoi interlocutori una curiosità morbosa, una certa sadica soddisfazione nel trovare in lei, impeccabile e determinata giornalista, dei punti deboli, l'ammissione di essere caduta nella debolezza, di aver cariato il suo bel sorriso per i continui conati di vomito, la esplicava con fierezza davanti all'uditorio. Era come dire: "Nonostante tutto quello che ho passato, eccomi qui. Ciò che fa di me quella che sono ora è stata proprio la forza che ho trovato per rialzarmi. Aver conosciuto così intimamente il dolore mi permetterà di sostenere Iris nei momenti difficili della sua vita."
Mentre la spavalda psichiatra lesse in quel sorrisetto finale di Elsa una provocazione all'"autorità materna", le labbra dischiuse di Elsa formulavano un chiaro messaggio di sfida a quella donna dai modi pomposi e dall'apparenza frivola, dove la scelta dell'abito era dettata sempre dallo scatenare l'ammirazione maschile per quel corpo artificialmente abbronzato, impomatato e lustrato per dare una parvenza di giovane seduzione.
Tutto sommato, per Carlo i colloqui non avevano la stessa carica simbolica. La sua psiche non era così contorta e le sofferenze giovanili non avevano mai prodotto in lui comportamenti distruttivi o minato "la struttura dell'Io". Le sevizie ricevute dal bullo di turno venivano realisticamente interpretate come le leggi di quella particolare giungla che è la società umana. Dato che questa aveva ridotto in sapone le ossa dei suoi bisnonni materni in qualche campo di sterminio dell'Europa dell'Est, era troppo preparato alla banalità del male per sentirsene in qualche modo responsabile. Certo, essere scandagliato nel suo intimo non era un'operazione piacevole, ma vi ci sottometteva con assennata rassegnazione.
Fu proprio facendo leva sulla sua "diversità" che convinse la commissione della sua empatia ed accettazione dell'altrui diversità, in questo caso l'estraneità tra i suoi geni e quelli della sua futura figlia. La psichiatra lo considerò come un elemento inoffensivo, innocuo, anche se un tantino spocchioso per la sua aria da intellettualoide e la sua preferenza per donne della natura di Elsa, per lei disperatamente "frigide" e "represse", quando in realtà non si rendeva conto che la sua serena esposizione della sua "femminilità" era una forma rovesciata di repressione, "frigidezza della spontaneità", se così si può affermare.
(continua)
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