Presentimenti

Raggiunse la panchina a grandi passi. Si sedette, rinfrancata. Nessuno di sua conoscenza che potesse vederla. Finalmente poteva lasciarsi andare un po'. Si sfilò il cappotto e lo distese sulla panchina. Prese un mucchio di foglie dalla collina dietro di lei e le compresse nel suo scialle formando un cuscino di fortuna. Ormai le poche energie che le erano rimaste si erano esaurite in quei semplici gesti. Era tempo di stendersi sul suo giaciglio. Il cielo era terso in quel primo pomeriggio e le nuvole pasciute di vapore acqueo.
Trasse un profondo sospiro. Quello scomodo palloncino dentro di lei che la spingeva da tempo ad evitare gli altri necessitava di essere forato al più presto. Il suo peso era diventato insopportabile.
Qualcosa si mosse e si sciolse dentro di lei. Avvertì le lacrime sulle guance ma non ebbe alcuna reazione. Voleva soltanto lasciar scorrere fuori quello che aveva dentro, spremersi come un tubetto di dentifricio. Non sapeva il perché di quella sofferenza rattrappita su sé stessa.
Era sempre stata schiva. Ogni persona rappresentava per lei un pericoloso oggetto contundente. Si sentiva priva di difese. Giorno dopo giorno, la sua esistenza era una lotta continua contro la propria disgregazione. Era terrorizzata dagli sguardi altrui, era come trovarsi perennemente sul banco degli imputati senza saperne il motivo. Temeva che il suo flusso di sensazioni, pensieri, emozioni si arrestasse e dovesse fornire delle spiegazioni. Che dovesse rispondere con il suo nome e cognome. Lei questo non poteva tollerarlo. Voleva restare nell'anonimato, essere invisibile. Costruire un proprio mondo nel quale ridere piangendo. Nel quale urlare all'improvviso, così come stonare, fosse consentito. Non voleva che qualcuno le ricordasse che in realtà vi erano regole da rispettare, riti sociali da ottemperare, reputazioni da mantenere.
Ma questo suo mondo doveva, tristemente, nascondersi quotidianamente per convivere con il fatto di essere stata messa all'interno di un cerchio di aspettative, etichette, recinti. Aveva ancora davanti agli occhi quella scena. Lui e lei. Lei piccola, minuta con un cappotto rosso. Lui slanciato ed ermeticamente chiuso nel suo giaccone nero. Era tempo di esami, lei stava costruendo un'aria in si be molle nella testa mentre rispondeva ai comandi automatici delle sue braccia e delle sue gambe alla ricerca di testi d'esame. E si era imbattuta in lui e lei. Cercò conforto dietro ad una colonna, la sua aria non doveva essere annullata per nulla al mondo. Invano. C'era qualcosa nella mano di lei di atterrito. Lui aveva girato la testa da un'altra parte, le mascelle serrate e le spalle rigide, curve su loro stesse. La mano di lei si era sciolta dal braccio di lui in modo repentino. I due ristettero. Lei si rese conto che stava pestando un volantino studentesco. Da come aveva camminato fino a quel momento, si capiva che faceva attenzione ad ogni cosa, che l'unico elemento che poteva entrare in frizione con la suola delle sue scarpe era il terreno. Lei si allontanò con passo ondeggiante, come se si fosse appena svegliata da un incubo. Si allontanò da lui come poteva allontanarsi da un estraneo. Il trucco che cominciava a sbavarsi ed un tremito che le attraversava il corpo.
Lui stette lì a fissare quel volantino con l'orma di lei. Lo sguardo svuotato, le gambe incollate al suolo. Un'ombra di rimorso nel suo ultimo aggrottar di ciglia. E sparì. 
Aveva bisogno di trovar rifugio in quella panchina. Da troppo tempo le sue viscere imploravano "Non a me, non a me. Fa che non capiti a me." E le lacrime ghiacciate dalla brezza invernale di quel parco sigillavano quella preghiera angosciosa.

(scritto in data 8/12/13, dopo cena)

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