Romanzo (forse incompiuto) a puntate- Parte II (a)

Capitolo Primo

I resist any thing better
than my own diversity,
Breathe the air but leave after me,
And am not stuck up, and am in my place.
W. Whiltman, From Song of Myself

Proseguite lungo quella strada che porta al secolare castagneto accennato sempre nel racconto del ritrovamento di Iris. Le querce, mastodontiche cattedrali che sorvegliano come matrone i più sottili castagni, vi guardano circospette. Hanno visto passare nei secoli briganti, amanti corrosi dall'adulterio, suicidi, soldati portatori di morte. Hanno le loro ragioni nello scrutarsi con fare indagatorio. I castagni no, hanno sempre avuto una parola buona per tutti. Le castagne non si negano a nessuno, nemmeno a quei vandali dei cinghiali. 
Imprimetevi il disegno che fa questo intrico di foglie e rovi, è lo stesso dove Iris cercava rifugio per essere lasciata in pace. Da chi, vi chiederete. Chi l'inseguiva? I pensieri degli altri, carichi di preconcetti.
Lo vedete quello stretto passaggio ritagliato tra le ginestre e le more? Bene. Calatevi dentro. Per Iris non era mai stato un problema, osservando i movimenti studiati ad arte di Groucho. Ma forse voi potreste incappare in qualche spina, franare leggermente sotto lo strato di argilla e di arenaria.
La fatica è ricompensata dalla vista delle orchidee selvatiche, delle libellule che, ieraticamente, immillano come facce di quarzo lavorato la luce di sfumature indaco. Iris si rifugiava qui soprattutto le sere d'estate facendo le mani a cupola attorno alle lucciole per disperdere nelle loro buffe rotondità i suoi pensieri. Specchiatevi con attenzione sulla superficie di quel preistorico laghetto dimenticato dall'umanità.
Non notate delle piccole bolle d'aria provenire dal basso? Sporgetevi e potrete godere del miracolo di quei piccoli... Né pesci, né anfibi... I girini. E se la melodia dei grilli non vi ha rapiti prima, potreste forse notare una certa somiglianza con la protagonista di questa strana storia. Come loro, Iris era traslucida, inafferrabile.
Neanche il colore dei suoi capelli poteva essere fissato con qualche pennellata veloce. La luce o la mancanza di essa faceva sì che nessuno riuscisse mai a definirne lo spettro cromatico. Una chioma cangiante come i suoi pensieri. Fin dalla nascita Iris veniva percepita dagli altri come un rebus da risolvere.

Le settimane che susseguirono il suo ritrovamento furono un incubo per Carlo ed Elsa. Era come se un fulmine a ciel sereno fosse entrato nelle loro vite scaricandosi in tutta la sua elettricità e facendo campo bruciato. Elsa si rese conto quasi da subito come i suoi sogni zuccherosi sulla maternità non fossero altro che vaneggiamenti infantili del tutto sradicati dalla realtà, mentre Carlo subì l'incubo che si era prospettato più volte ma decuplicato. Sia loro che i medici erano rimasti inorriditi dalle condizioni della piccola,espulsa dal ventre materno prima del dovuto e per giunta sottopeso, esposta all'aria gelida. Il gattino sembrava versare in condizioni migliori. Se non altro, aveva avuto la fortuna di essere "ospitato" dalla gatta di Marica, una carissima amica di Elsa, la quale aveva partorito solo da tre giorni ed era talmente pasciuta da non essere affatto disturbata da un altro piccolo avventore delle sue mammelle. Una volta svezzato, Groucho (e chi altri se non Carlo avrebbe potuto dare un nome del genere ad un gatto?) sarebbe tornato da Elsa e Carlo. Tutti concordavano che la presenza di un animale sarebbe stata utile per una bambina che avrebbe dovuto affrontare l'idea di essere stata abbandonata alla nascita. Elsa e Carlo, che si erano già precipitati in tribunale appena dopo aver visto la piccola al sicuro dentro all'incubatrice, avevano difatti deciso di adottare la bimba. Per loro, anche se una cosa quasi violenta per la sua irruenza, diventare genitori della bambina sembrava quasi una cosa dovuta. L'idea che quella creatura così fragile venisse data in pasto ad un orfanotrofio semplicemente li terrorizzava. Un inceneritore dell'infanzia, no, era assolutamente da cancellare dalle loro menti. E poi si sentivano anche in "diritto" di farlo. In fondo erano stati loro a scoprirla, loro che si erano preoccupati di chiamare l'ambulanza, scomodare Marica per Groucho. Senza contare che era da "aspettarselo" che sarebbero divenuti dei genitori.
Ma, come accennato prima, molte volte le aspettative su un concetto non ancora sperimentato si scontrano con la realtà. Nessuno di loro due pensava che genitorialità avrebbe significato insicurezza. Già, l'idea che un'altra vita dipenda interamente dalle proprie scelte e che niente o nessuno avrebbe dato una mano... Certo, ci sarebbe stato sicuramente il nonno, la nonna, la zia, lo zio, l'amico di turno che si sarebbero offerti per occuparsi della bambina. Ma sarebbero stati loro ad imprimere le loro concezioni sul mondo, sulla vita, sulla felicità, l'onestà, l'amore, la fede o meno in una divinità. Il fatto di pensare che loro non erano altro che l'anello di una catena nella quale erano rimasti imbrigliati i loro genitori, nonni, bisnonni, avi, un lungo serpente di combinazioni diverse di concepire il tutto esistente che aveva partorito loro stessi come effetti della catena, e, soprattutto, l'idea che per lungo tempo quella bambina sarebbe stata "plasmata" da loro erano quasi inconcepibili. Troppo gravi, grandi e pesanti come macigni per entrare nella testa di un essere umano.
Senza contare la paura che una bambina "diversa", perché adottata, sarebbe stata divorata dalla cattiveria del mondo. Tutto questo non li fece dormire per lungo tempo, sommato alla lunga agonia delle pratiche infinite per l'adozione. Un tempo bastava ospitare un trovatello sotto ad un tetto, offrirgli cibo ed amore per poter essere accettati socialmente come i "genitori adottivi" di quel bambino.
Ora invece c'erano tante porte alle quali bussare, un'infinità di sguardi indagatori, di esami, di prestazioni da sostenere. Una firma ed un timbro sullo stesso ago della bilancia di cuori pronti ad accogliere come caldi nidi. Va bene che è giusto che la società si preoccupi di destinare un bambino con alle spalle un passato difficile ad una famiglia il più possibile idonea (sarebbe troppo dover ammettere di avere una società disfunzionale, dove i padri e le madri non fanno il loro dovere ma si lasciano distruggere dalle loro debolezze...!), però questa continua sensazione di essere scrutinati senza scrupoli era per Carlo ed Elsa insopportabile, oltre che assurda.

Intanto, i progressi della bambina avanzavano lentamente, quasi in modo impercettibile. Come nella vignetta di un fumetto, dove viene inscenata la compresenza di due personaggi al telefono, Iris veniva contemporaneamente percepita in due modi diversi, gli occhi dei suoi genitori e quelli dei medici che la tenevano in cura. Agli occhi di Carlo ed Elsa, ogni battito di palpebre, stiracchiamento dei minuscoli e rosei piedi era segno della forza di volontà della loro bambina. La sua lotta per la sopravvivenza li riempiva di orgoglio misto a timorosa premura. In quelle schermaglie che Iris inconsapevolmente tendeva alla morte c'era per loro la certa attestazione di una nobiltà di spirito notevole. E fra loro e loro, senza mai consultarsi e confidarsi direttamente, cominciavano ad intessere sogni sulla Iris futura.
Eccola lì la Iris di Carlo. Una ragazza che cammina con falcate decise per le strade, senza mai abbassare la testa di fronte a nessuno, senza arrossire, balbettare o, ancora peggio, desistere da fare un'azione che desidera con tutta lei stessa perché sopraffatta dalla paura. Nel mondo di Iris concepito da Carlo la parola fallimento era emendata. Ogni idea di Iris avrebbe trionfato su qualsiasi tipo di ostacolo. Da un lato Carlo temeva che la futura Iris avrebbe potuto procurargli qualche grattacapo: un'adolescente ribelle che ripudia l'autorità e che, magari, non esita ad infilarsi con sguardo di sfida un casco per poi sfrecciare abbracciata ad un avanzo di galera tutto tatuato ma che "la capiva nel profondo" e "amava la sua arte". Iris, nei sogni di Carlo, doveva incarnare tutto ciò che lui non aveva avuto il coraggio di fare durante la sua adolescenza. Il suo acuto senso dell'ironia, nonché la spietata autoironia (che le graziose universitarie nevrotiche trovavano irresistibile) non era altro, infatti, che l'arma lentamente forgiata da vessazioni, da occhiali frantumati, da capelli risucchiati dalle correnti dei water, da ragazze rifiutavano con sdegno i suoi timidi inviti al cinema per preferire il braccio tornito dello stesso bullo che, magari, qualche secondo prima gli aveva strappato di mano la merenda o spintonato lungo le scale.

La Iris di Elsa era invece incorniciata in un intreccio d'edera dal sapore brontiano. Quante volte nella sua cameretta di bambina aveva fantasticato sui libri delle scrittrici inglesi ottocentesche! Era come se quelle parole ovattate che, dietro alla facciata delle parole da salotto e conformismi sociali, nascondevano un sapore avventuroso, qualcosa che si stava compattando in uno spirito di rivolta ed emancipazione femminile. Va bene, era ancora tutto in potenza, in germe, ma questa commistione di romanticismo, buone maniere e al tempo stesso struggimenti ed inquietudini interne era ciò che Elsa sognava per fuggire da un ambiente polveroso di provincia, ingrigito dai cantieri industriali e banalizzato da pianure sempre uguali a loro stesse. La fragilità che Elsa vedeva nelle sottili membra della sua Iris e nel suo sguardo indifeso ed innocente, unito alla sua strenua lotta per la vita, la riportava alle sue eroine di un tempo. Delicatezza ed acume. Sensibilità e voglia di libertà. Elsa si immaginava sua figlia in un campo di papaveri a Giugno, le lunghe chiome sciolte, un libro in mano ed uno sguardo dolce ed al tempo stesso concentrato che faceva da contro-altare ad un fresco vestitino.
Una femminilità che si esprime naturalmente, senza artifici od eccessiva ostentazione e sicurezza. Tutto il contrario di quella Elsa foruncolosa e sempre tiranneggiata dai commenti delle sue compagne di classe, che per lei erano sempre splendide ed intelligentissime. Il fatto che lei fosse l'alunna più brillante della classe non contava. Quello che vedeva dal suo specchio distorto che si portava sempre con sé era una sciocca e goffa ragazzina in quel sacco informe che era il suo corpo. Quest'ultimo cambiava sempre aspetto a seconda dell'umore di Elsa, che virava costantemente dal grigio chiaro al nero più cupo. O era troppo alta, e quindi addio ragazzi che potessero interessarsi a lei, non solo perché stare insieme ad una ragazza più alta faceva sfigurare, secondo i suoi ragionamenti da liceale, la virilità del ragazzo di turno, ma anche perché l'altezza comportava un seno praticamente inesistente. Curioso come nelle percezioni il seno rimanesse sempre infimo al cambiare della corporatura. Il più delle volte si vedeva troppo grossa, incapace di muoversi in modo aggraziato, in pratica un farneticante pachiderma. Per cercare almeno di tamponare in minima parte i commenti altrui, che lei moltiplicava ed amplificava senza fondamento, riversò sul cibo un controllo maniacale. Ma non era mai abbastanza. Il suo corpo e la sua incapacità dovevano essere puniti sopprimendo ulteriormente le quantità di carboidrati, lipidi e tutto ciò che suonava minacciosa per la sua silhouette e, in controluce, per la sua anima.
Era entrata in una spirale morbosa senza nemmeno accorgersene. Un giorno, durante la lezione di matematica, le fischiarono le orecchie. Subito dopo quel ronzio, un lampo bianco. Quando riaprì gli occhi vide il viso costernato del professore e crocchi di compagni che, a distanza, parlottavano tra loro con tono preoccupato. Da allora ci vollero anni di psicoterapia e di visite mediche in ospedale per riacquistare quella visione del suo corpo che lei non riusciva a scorgere. Non voleva che sua figlia non potesse cogliere i frutti della sua bellezza, del suo magnifico ed armonioso corpo di giovane donna, della grazia naturale delle ragazze, ma anche la sua energia, la sua intelligenza sprecando l'età più bella della vita con pensieri autodistruttivi. 

Quello che stavano facendo i genitori di Iris, mentre si sporgevano verso quella crisalide di vetro nella quale si trovava racchiusa, non erano altro che proiezioni di ciò che erano stati: volevano che da quell'involucro uscisse una farfalla che non dovesse sperimentare le loro mancanze, che potesse "superare i maestri". Se loro non erano riusciti a vivere appieno il fiore della giovinezza, volevano che la loro farfalla volasse in quel fiore anche per loro. Per poterli riscattare.

(continua)

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