Pif


Mi ripeterò, dato che anche qui si ha a che fare con un giornalista, ma tant'è... Innanzitutto, Pif appartiene ad una specie agli antipodi, in un certo senso, rispetto a quella di Matteo Bordone: piedi ironicamente saldati a terra, da una parte, e cinismo freudiano con punte di dandy dall'altra. Forse non è un caso che sia partito da Le Iene per poi finire su Mtv... Il suo habitus è infatti quello di fotografare la realtà dell'uomo più o meno comune con uno spirito disincantato e che, al tempo stesso, scenda a patti e condivida per il tempo necessario a descrivere e comprendere quella stessa realtà. Un Malinowsky metropolitano, se così si può dire.
All'inizio riservavo una generosa dose di scetticismo per un programma che incontrava le simpatie di mio fratello, pragmatico verace che ripudia le materie umanistiche aprioristicamente, nonché animale domestico che da tempo sconquassa i miei spazi vitali intra-murari. Poi venne l'illuminazione. Nel tinello di una delle mie più care amiche, dopo giornate passate a scambiarci polvere di stelle e sogni. "La cosa bella di quel programma è che Pif fa credere ai personaggi che intervista di crederci anche lui nelle loro convinzioni o nelle loro manie. L'ilarità nasce proprio da questo, perché il messaggio che passa allo spettatore è invece quello di un'implicita commiserazione o derisione nell'atto stesso dell'adesione." Fidandomi del giudizio della mia amica e turandomi il naso di fronte al fatto che io e il mio fratello a-umanistico possiamo avere, in fondo in fondo, degli interessi comuni, ho deciso di dare a Pif una possibilità nel mio personalissimo palinsesto televisivo. E l'ha spuntata, anzi mi ha dimostrato di nutrire dei pregiudizi infondati.
La filosofia del mischiarsi al soggetto da immortalare è insita nello stesso impiego artigianale e (ovviamente falsamente) fai-da-te della macchina da presa e della conseguente mimetizzazione con l'impiego della tattica del 'basso profilo', tecnica che ottiene come risultato il dispiegarsi di fronte all'obiettivo della realtà esattamente così com'è, senza che intervengano deformazioni (come la volontà di mostrare il meglio di sé per nascondere il peggio sotto il tappeto) di sorta. E così una Valeria Marini si rivela per una spietata imprenditrice di sé stessa, per quanto il suo orizzonte linguistico non trascenda l'espressione polifunzionale del 'da sogno', un animatore del villaggio turistico un ferreo seguace della disciplina del divertimento, un maraja indiano un omosessuale orgoglioso di esserlo e di ostentare la sua identità sessuale. La semplicità del porsi davanti al soggetto da intervistare permette anche un affidarsi a Pif, un confidarsi che spesso è difficile raggiungere in certe realtà, come quella complicata e dolorosa del transgender. Terreni conoscitivi che non avremmo mai avuto la possibilità di esplorare in profondità.


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