Quel che veramente conta (19-01-2012)
Spesso in questi giorni la stampa e l'opinione pubblica stanno contendendosi una spartizione delle colpe e dei valori etici, del bene e del male rispetto alla vicenda della Concordia. In un lavaggio collettivo della coscienza si mette a soqquadro l'intera tragedia, scombinandola in tanti segmenti costitutivi. Forse Lèvì-Strauss si rivolterà nella tomba se mi azzardo a chiamare tali segmenti "mitemi".
Ma credo che quello che i nostri sensi percepiscono non siano altro che miti, scaturiti dall'immaginario collettivo. Miti che stravolgono la crudezza e l'assoluta banalità dell'accaduto. Banalità del male, appunto.
Non credo, come ho potuto ascoltare da un filmato di Repubblica (stupendomi del semplicismo delle sue riflessioni, essendo una testata che ha sempre dato prova di un buon giornalismo), che Schettino fosse confuso, scioccato dal convulso dispiegarsi del suo mortale errore, impaurito dal freddo e dalla possibilità di morire. Quello che tutti abbiamo potuto ascoltare nella telefonata tra lui e De Falco è invece un uomo che ha messo a nudo la sua banalità. Un'ottusità che lo porta ad addurre pietose scuse, pur di restare al sicuro nella sua scialuppa. Il tono della voce assolutamente imperturbabile. "E' buio." Come se si stesse giustificando per qualcosa di quotidiano, di ovvio. Non so se anche voi avete avuto quest'impressione, ma, ascoltando quella telefonata, la prima sensazione da parte mia è stata di una totale finzione. Non che quello che dicevano non l'avessero mai pronunciato, ma come se tutto fosse impostato, come se entrambe le parti in causa avessero, prima di allora, recitato un copione. Il tono enfatico, la voce simile a quella di tanti film di guerra di De Falco, e la voce impacciata, quasi da macchietta, di Schettino.
Nonostante il video lamenti la mancanza di iniezioni di fiducia ed un linguaggio dittatoriale, esso sostiene che gli italiani metterebbero al bando Schettino e lo userebbero come capro espiatorio perchè rappresenterebbe la loro vera natura, piccoloborghese, egoista, tesa a coltivare il proprio orticello. Certamente queste vicende stuzzicano l'immaginario collettivo, permettendo alla società di proiettare in esse le più recondite paure, facendone, appunto, miti. Io credo che la lettura di Achille Mbembe "Sulla postcolonia" sarebbe utile a chi ha realizzato quel video, così come, forse, a Massimo Gramellini (e lo dico a malincuore, poichè è un giornalista che ha la mia piena stima), il quale, in un articolo su "La Stampa", indica come vero eroe il commissario di bordo. Per quanto sia d'accordo che sia stato l'unico a comportarsi decentemente, non vedo il perchè di farne un eroe.
Entrambi gli autori sono i sostenitori del fatto che è "facile dare gli ordini/fare gli eroi se non si è sul posto, nella situazione tragica". L'ovvietà di una tale affermazione fa sì che ci si sposti da quel che veramente conta. Certamente l'unico che si è assunto le sue responsabilità e non è fuggito da esse è il commissario di bordo, ed è per merito suo se delle persone sono riuscite a salvarsi, così come non c'è ombra di dubbio che sia stato facile apparire come un eroe da parte di De Falco quando si trovava distante, in un luogo sicuro, di fronte ad un monitor.
Ma cos'è che si perde di vista? L'assoluta crudeltà della mediocrità di un equipaggio e di un uomo che non avrebbe nessun requisito per guidare la Concordia, per mezzo della quale sono morte, nel modo più stupido possibile, 34 persone. Pensare a degli eroi o reputare tali persone che si sono comportate così perchè era loro dovere farlo, previsto dalle loro professioni, e quindi mascherare il dovuto con l'eccezionale, fa sì che anche il male non diventi più straordinario, ovvero fuori dall'ordinario, un qualcosa che non è più da combattere o contro il quale indignarsi, ma una grigia, inevitabile, abitudine.
Interrogarsi poi se questo dovere sia moralmente sentito come giusto, oppure soltanto un'abitudine della quale si è perso il senso e che si fa soltanto per percepire lo stipendio è un'altra cosa, che sarebbe quanto mai urgente disquisire in un mondo alienato dal denaro, da affrontare in un'altra sede, per quanto il tono di voce impostato ed emotivamente freddo di De Falco porti naturalmente a porre questa domanda.
Quello che mi preme qui porre all'attenzione è il processo psicologico, semantico, sociologico, antropologico che ha portato a far sì che Schettino divenisse simbolo della malvagità della società italiana. Ed è qui che entra in gioco Achille Mbembe. Cosa c'entrano i dittatori africani, vi chiederete... Fermo restando che il conflitto sociale, sempre più aspro per l'aumento vertiginoso della disoccupazione e della soglia di povertà, faccia sfogare l'aggressività repressa verso facili bersagli, qui non si tratta, nel caso di Schettino, di un capro espiatorio. Albert Dreyfus, semmai, lo era: un innocente preso come marionetta da annientare perchè stereotipicamente e ingiustamente simbolo del "parassita" della società. Non c'era alcuna identificazione con lui da parte dei francesi.
Qui invece c'è eccome un'identificazione. Schettino è il prototipo dell'italiano medio, quello continuamente ridicolizzato dalla stampa estera, pigro, incurante della cosa pubblica, disorganizzato. E' tutto ciò che un italiano può odiare di sè stesso o per cui provare, almeno, un minimo di imbarazzo. Il dittatore africano (esattamente come Berlusconi o Bossi) diventa parte del suo suddito e viceversa, in un rapporto di simbiosi. Egli diventa oggetto, feticcio nel quale vengono assorbite le caratteristiche dei suoi sottoposti, i quali, a loro volta, li usano per identificarsi, o positivamente, o per negazione (quanti di quelli, soprattutto uomini, che denigravano la condotta di Berlusconi, sotto sotto, lo invidiavano perchè ricco, potente ed attoniato da donne?).
Sostenere che Schettino ci rappresenta e che al suo posto, in fondo, ci saremmo comportati come lui significa accettare la propria barbarie, anzi, darle una giustificazione: relativizzando la condotta di De Falco, sostenendo che il suo ruolo sia intercambiabile con quello di Schettino (il che può anche darsi, ma non è questo il punto...), o esaltando quella del capitano di bordo è come attenuare la responsabilità di Schettino e, conseguentemente, confessarci tutti, nessuno escluso, colpevoli.
Ciò che è veramente germe di fascismo non sono tanto gli ordini "virili" di De Falco, per quanto possa essere d'accordo nel cercare di decostruire un sistema sociale che prevede un sottomesso e un dispensatore di ordini, discorso talmente generale che può anche prendere le mosse dal fatto della Concordia, ma piuttosto questa indifferenza, questa disillusione nei confronti della realtà assolutamente fine a sè stessa, perchè non porta ad un cambiamento di sè, a percepire ignobile la banalità di Schettino e a prendervi le distanze.
A questo vuoto di valori corrisponde questo proliferare di opinioni, di famigerati complotti, di visioni dualistiche della realtà. Io vivo in una regione messa in ginocchio, vilipesa da numerose tragedie (non paragonabili con quella della Concordia per una serie di motivi): dalle stragi nazifasciste, all'Italicus, fino a quella della stazione di Bologna. Conosco bene i volti induriti dal dolore, i discorsi interrotti a metà, gli sguardi fissi nel vuoto, in quel passato indelebile. Vite che ancora oggi non trovano la giustizia che meritano, proprio perchè la verità, quella essenziale, che non ha bisogno di essere gonfiata dalle sperimentazioni, dalle sfide della logica e dell'eloquenza, viene soffocata da questi sillogismi tanto amati dall'opinione pubblica. Che gli autori di queste raffinate masturbazioni intellettuali provino ad esporle a chi ha perso un congiunto nella Concordia. Che trovino il coraggio di farlo.
E' questo qualunquismo che mi terrorizza, che mi fa sempre più credere che Mario Monicelli, in una delle sue ultime dichiarazioni pubbliche prima di togliersi la vita, avesse pienamente ragione: gli italiani sono fatti per la dittatura.
Come porre fine a questa piaga nazionale?
Se sarà qualcosa a portarci alla rovina, quel qualcosa sarà il qualunquismo.
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