Lo sguardo del pettirosso

Fuori piove. I tichettii inseguono i contorni dei vasi di terracotta vuoti in attesa di qualche fiore ornamentale. Sui vetri delle finestre tracciano traiettorie perlate. Un pettirosso trova riparo tra l'intercapedine di due recipienti di latta e attende, un pò stordito, di poter volare nel pino mugo una volta che la via sarà libera.
Il vapore emanato dalla tazza di tè avvolge la scena esterna in una nuvola ovattata. La ragazza si massaggia la testa prima con lenti cerchi concentrici, poi più vigorosamente. La tazza è momentaneamente appoggiata sul suo grembo. Intorno a lei, una nuvola di cuscini colorati le sorregge la schiena.
Quando ancora attribuiva un'anima al suo orso di pezza, la sua schiena era divenuta un testardo e rigido pezzo di legno, privo di linfa vitale. A poco a poco, a dispetto dei suoi vivacissimi e penetranti occhi scuri, anche le gambe divennero tronchi secchi, moncherini ormai inutili per sollevarsi sulle punte e farsi travolgere da quella leggera ebrezza che provano i bambini nell'affrontare un mondo più grande di loro.
Si era identificata con il tronco cavo in cortile che ospitava i  nascondigli dei figli dei vicini o il sonno di qualche tasso. Le era sempre piaciuto trasferire anime da un oggetto all'altro, da una forma vivente all'altra. Ecco che il bricco del caffè rotto del papà racchiudeva lo spirito di una pensionata bisbetica, che in gioventù frequentava salotti aristocratici per commentare in modo acido i vestiti fuori luogo delle altre convitate. Il suo astuccio per le matite colorate era, in realtà, un bassotto che aveva ideato il salsicciotto d'autore, per poi non essere compreso dai suoi padroni e tenuto in osservazione dal veterinario.
In un certo senso, cercava di dare un senso alla sua paralisi, che la faceva sentire come un oggetto inerte. Sicuramente, era più gratificante pensare di essere il ricettacolo di un brillante fisico sperimentale, di un'archeologa inglese dell'Ottocento, o di un gatto di un faraone, piuttosto che ammettere di essere una bambina "diversamente abile". L'archeologa inglese dell'Ottocento ero lo spirito che più le piaceva. Scavare, sporcarsi le mani di terra, condurre una vita alla stregua dei coetanei maschili, raggiungere terre lontane con rebus da decifrare era tutto ciò che desiderava Annalisa. Poter fuggire, almeno con la testa, da quella gabbia d'acciaio che era ormai il suo stesso corpo.
Ora che era ormai una ventenne dal ribelle caschetto color miele, l'archeologa Winifred era ormai una memoria di un'infanzia volutamente spensierata, alla faccia delle barriere architettoniche  e dell'iperattività di suoi compagni di classe. Ciononostante, i suoi pensieri galoppavano a briglia sciolta e le contornavano le giornate di una seconda dimensione. Decidere di conseguire un dottorato in matematica sperimentale era in linea con questo suo incessante desiderio di costruire nuovo dal nulla. Tra uno scroscio di pioggia d'Aprile e l'altro, la sua mente si trovava ora del tutto assorta nel pregustare il nuovo dipinto da aggiungere alle pareti aerate della veranda, l'angolo della casa dove trascorreva più tempo. Forse perchè sentiva che, per riprendere le lezioni su Wright della rubizza professoressa di storia dell'arte del liceo, la casa "respirava" con il cortile esterno e quindi, di conseguenza, anche i suoi delicati polmoni. 
Le piaceva l'odore dell'acqua ragia. La riportava ai tempi dei macchiaioli, di un Morandi, di un Turner. Quando era andata a Dublino con la sua amica del cuore, Ines, era rimasta folgorata dalla ricostruzione dello studio di Bacon. Caos che suggeriva già i volti sfocati, la materia tridimensionale delle sue opere. Da quel viaggio si era messa in testa di costruire uno studio che potesse riflettere il suo stile pittorico. Lei si riteneva un'astrattista. Emozioni, scoperte, raggi di luce, ritmi si traducevano in forme, colori, intersezioni, ipotenuse. Non molto diverso da quanto già non facesse nelle sue ricerche per l'università, con la differenza che il mezzo di espressione era un pennello e non la tastiera di un computer.
La rassicurava il fatto che ogni cosa potesse essere ricondotta ad una proporzione, ad un rapporto numerico. Era affascinata dal molteplice, ma ne era anche spaventata. Poter ricondurre l'eterogeneità ad equazioni le permetteva di vincere l'angoscia che provava verso l'imprevisto. In un certo senso, lo stesso creare anime diverse dai corpi, come se i corpi fossero meri contenitori, matrioske di fughe spazio-temporali era già un modo per sperimentare la libertà senza mai distaccarsi del tutto dall'involucro della gabbia. Repressiva, ma anche rassicurante. Come il suo corpo. Implacabile lama d'acciaio, ma mai traditore delle proprie emozioni. Come ad esempio tremare, scuotersi, indietreggiare, vacillare. Solo il viso e le mani, unici germogli scampati dal grande freddo, la tradivano ogni tanto. Ma il suo lungo esercizio infantile di pensarsi come un tronco cavo le veniva sempre in soccorso. Per i suoi colleghi dottorandi, Annalisa era l'esempio perfetto di autocontrollo e a lei faceva piacere farglielo credere.
Sorseggiato sovrappensiero il tè rimasto, le mani cominciarono con un tratto di nero antracite a segmentare le piume del pettirosso intrappolato tra gli utensili da giardinaggio della madre. Voleva far trasparire la fragilità del piccolo volatile ma anche la sua dignità nell'aspettare il corso degli eventi. Un pò come lei. Aspettare ed intanto osservare, decifrare, capire.
La sua infermità l'aveva accettata come un teorema o un postulato. Triangolo scaleno invece di isoscele. Non le mancavano le amicizie, la voglia di esplorare e di divertirsi. Ogni tanto, accadeva qualcosa che le faceva ricordare il suo stato di tronco e allora i suoi occhi fissavano un punto nel vuoto.
Gli occhi del pettirosso si stavano confondendo con i suoi.

Scritto tra un dormiveglia e l'altro, 26-05-2013


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