"Capire Israele in 60 giorni (e anche meno)" Sarah Glidden


Non è il primo graphic novel che leggo incentrato sul conflitto israelo-palestinese. Il primissimo che ho avuto tra le mani è Palestine di Joe Sacco. Un secondo, di recentissima lettura, è quello realizzato dal canadese Guy Delisle, Cronache di Gerusalemme. Ogni versione dello stesso problema varia, ovviamente, a seconda del cantastorie. Non mi ritrovo molto nella comparazione che ne fa Paolo Interdonato ad introduzione della versione italiana del lavoro di Glidden.
Lo spirito allegro di Sarah è spesso di scena, ma a differenza dell'approccio surreale di Delisle le sue battute non producono risate liberatorie, e anzi sottolineano il contrario, ovvero la prigionia dei propri pregiudizi culturali. La Glidden è una scettica curiosa, e là dove il Delisle migliore riesce a danzare tra gli stereotipi come uno stralunato Jacques Tati, Sarah infierisce con  le spietate perplessità di un Woody Allen. [...]
E proprio nella diversità con Sacco si può collocare il viaggio di Sarah, tra memoir e travelogue, la cui motivazione a raccontare dell'area geografica ha poco a che fare con le finalità strettamente giornalistiche dell'autore maltese-americano. (pp. 6-7)
Non sono molto d'accordo, innanzitutto perchè il cinismo alleniano è, per buona parte, anche stralunato. E ci vedo ben poco Woody Allen nell'opera di Glidden. Guy Delisle mi sembra che, sì, filtri il conflitto "con leggerezza", ma non perchè si destreggi tra uno stereotipo e l'altro, quanto perchè è bravissimo ad auto-rappresentarsi nelle vesti di un padre tra i trenta e i quarant'anni affetto dalla sindrome di Peter Pan. La stessa graphic novel di Sacco non è interamente didascalica e giornalistica, anzi, credo proprio sia una specialissima resa di un memoir: Sacco che si dipana con i suoi sandali nel fango degli insediamenti palestinesi, Sacco che reagisce alle testimonianze dei suoi intervistati. Per quanto il giornalismo sia per forza di cose un pò soggettivo, il tasso di soggettività in Sacco non fa per niente buttare l'ipotesi del memoir. Quel che differenzia la storia di Glidden dai suoi precedenti è il dilemma esistenziale che la affligge in quanto ebrea americana filo-palestinese e con un ragazzo di origini pakistane e musulmano come fidanzato. Forse il titolo doveva essere diverso, proprio perchè il vero protagonista non è la comprensione di Israele, ma il viaggio interiore di Sarah. Le pagine di Glidden offrono sì, come scrive Interdonato, uno spaccato delle miriadi di contraddizioni del conflitto medio-orientale, ma quello che è al centro della fabula sono le contraddizioni emotive, il dipanarsi da una situazione empatica di alleanza nei confronti del senso di vulnerabilità ebraica, ad un'aspra condanna della condizione palestinese.
Punto chiave è, per me, il dialogo tra Sarah e Nadan, uno degli organizzatori di Taglit. Alla scoperta d'Israele, un viaggio gratuito offerto a tutti i ragazzi ebrei del mondo per visitare le proprie "radici culturali". Sarah, all'inizio, aveva partecipato a questo viaggio organizzato per poter analizzare nel dettaglio la propaganda filo-israeliana. Man mano che il viaggio procede, Sarah si accorge di non riuscire a non coinvolgersi rispetto a certe ragioni israeliane, come la paura per il terrorismo, il lutto di perdere l'innocenza di giovani ragazzi mandandoli alla leva obbligatoria, i fantasmi di insicurezza lasciati dalla Shoah.
La crisi di pianto di Sarah è il tracollo del suo sistema mentale nel categorizzare il bene ed il male, tanto rigoroso quanto rassicurante.












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