Rivendicare l'anonimato

 Mi ricordo ancora quel giorno in cui aspettavo l'autobus per tornare a casa e mi ero ritrovata ad osservare una colonna (o un muro?). Sulla colonna campeggiava una scritta probabilmente fatta con un pennarello indelebile, con il sapore inconfondibile della goliardia universitaria che ha ormai fatto storia sui muri della mia città. Sì, mia, perché ci sono cresciuta e, nel bene o nel male, mi ha apportato qualche cibo che ho digerito e poi si è trasformato in qualche telaio che ho dentro di me. Ebbene, la scritta riportava "In un mondo che ci obbliga all'eccellenza, fare schifo è un gesto rivoluzionario." [vedesi foto in fondo all'articolo] Mi ricordo di aver riso a crepapelle. Forse proprio perché (come tanti insospettabili che si fingono come perfetti) il mio personaggio preferito del topolino era Paperino, con le sue sfighe a ripetizione e alle prese con squinternate avventure con l'altrettanto disagiato Paperoga. Nell'universo consumistico e capitalistico che ha rappresentato per tutti noi trentenni la Disney, effettivamente il Paperino di un Massimo de Vita ci riportava a qualcosa di più anti-sistema di quello che le nostre giovani menti di allora potevamo realizzare. 

In questi giorni mi sono resa conto di quanto quella scritta sia vera. Il fare schifo ci riporta ad una dimensione non allineata con quello che la società si aspetta da noi: studia con il massimo dei voti, fai anche il simpatico e il socievole, conosci tante persone, divertiti, sperimenta (anche con droghe, alcool e festini, sia chiaro), ma poi, una volta laureato, trovati il lavoro della vita, riproduciti ed insegna alla tua prole questo flusso della vita conformista, ripetibile proprio in quanto standardizzato. C'è un'età per i cartoni, un'età in cui si può reclamare la propria rabbia in pubblico, un'età giusta per fare sesso, una per raggiungere la maturità, e l'evergreen orologio biologico per noi donne. Sì, lo so, nella vita faccio di mestiere l'antropologa e so benissimo che queste età o strutture/convenzioni sociali hanno un loro perché e un loro per come. Altrimenti si precipiterebbe nel caos, e bla bla bla, alla maniera di un Jared Diamond (che, insieme al prof di storia della scienza che lo introdusse, non ho mai sopportato). 

Nell'era dell'Internet, dei faccialibro, dei Ferragnez questo conformismo si è spostato sull'asse che, fin dall'antica Roma, regola il delicato equilibrio tra vita privata e vita pubblica. Ora, non sei un accademico cool se non hai un profilo Academia, Researchgate, Linkedin, se non parli anche di cose che non ti competerebbero in post "pop" su Twitter, Facebook o chissà quali altri blog o siti nati come funghi per rispondere alla domanda della "diffusione di conoscenza" (interi programmi di finanziamento, ora, si basano su questa logica), se non esponi la tua vita privata per mostrare a tutti quanto la tua vita accademica sia continuamente e vitalmente ispirata da quella social e "di vita." Non so se a un Giulio Cesare sarebbe piaciuto condividere il suo rancio del mezzogiorno insieme a citazioni sull'ultimo paper letto o mettere (se all'epoca ci fosse stata la fotografia) una foto di lui con suo figlio su un'epigrafe che narrava le sue gesta pubbliche. Vogliamo parlare di tutti gli scrittori di oggi che devono essere conosciuti in carne ed ossa per trarre validità dal loro lavoro? Persino ad Elena Ferrante hanno ricamato un'identità, un possibile gusto del gelato o qualche scabroso evento passato. Se l'hanno fatto con loro, pensiamo a come questo si ripercuote in coloro i quali hanno un ruolo pubblico meno visibile. Gente in metro incollata al cellulare a postare foto su instagram per il semplice fatto che, oh!, si rendono conto che la luce mattutina e quel filtro piazzato strategicamente li fanno sentire gli strafighi della situazione, salvo poi andare a stabilire confronti con altri che hanno fatto la stessa cosa. A questo si somma la categoria degli artigiani che devono far parlare i loro prodotti mettendosi in pose ispirate e con qualche colore o script accattivante. 

Parlo dalla prospettiva di chi ci ha provato ad entrare in questo mondo dell'eccellenza. Per poter essere amata o, semplicemente, accettata per poter organizzare (molto spesso a vuoto) viaggi strani di suo conio con qualche compagno di disavventure, per poter sentirsi apprezzata in ambito accademico, dove la giostra dei consigli è sempre: sii meno timida, più sorridente, più intraprendente. In altre parole: più narcisista, meno te stessa. Perché poi si sa, il docente con la camicia comprata nel suo fieldtrip in India che si porta con sé la moglie alle cene di fine conferenza per parlare dell'insostenibile leggerezza esistenziale demartiniana del bicchiere di Prosecco che sta bevendo alle spese del Dipartimento che ha ospitato i suoi voli pindarici sa benissimo che una carriera basata sul narcisismo paga. Le sue idee hanno per forza maggior risonanza di un insignificante scribacchino che, magari, decenni prima ha coniato certi concetti che lui ora ricopia ma dandogli uno nuovo spolvero.

Sì, ma al prezzo di cosa? Non so se sia la mia deformazione professionale, però mi chiedo perché gli uomini smettano sempre più di riconoscere che noi esistiamo per essere in contatto con il mondo. Abbiamo mani per intrecciare steli e fare canestri, abbiamo piedi e gambe per arrampicarci sugli alberi, dei capelli che ci ricordano che, una volta, anche noi avevamo una pelliccia e un attacco per la coda laggiù in fondo. La nostra mente, mentre crea, si allinea al farsi del mondo: non stiamo creando perché abbiamo qualcosa di ontologicamente straordinario in noi--siamo intellettuali, quindi scriviamo, siamo scemi e, quindi, andiamo a lavorare in fabbrica--ma perché siamo nati per fare questo. Tutti. Programmati dalla natura, non certo da qualche metodo mnemonico imparato su internet. Noi siamo animali, esattamente come il rondone che cerca accuratamente le erbette per dare vita al nido per i suoi piccoli. Il suo corpo di volatile e il suo singolo cervello, uniti, mischiati o chissà, ma comunque tutto questo, lo portano a scegliere il materiale vegetale più adatto per le intemperie, resistente ma anche elastico. 

Mi pare che un filosofo italiano che insegna in Francia (Emanuele Coccia?), nel suo trattato sulle piante, aveva scritto che respirare è la prima cosa che si fa nella vita, insieme alle piante (forse gli organismi che, più di altri, hanno basato la loro evoluzione interamente sul respiro). Inspiriamo: facciamo entrare il mondo in noi. Espiriamo: mondo digerito da noi+particelle di noi gettate nel mondo. Quindi alla fine si ha un intero circolo tra noi e il mondo ed è davvero difficile separare le particelle-mondo dalle particelle-noi, perché è un ciclo e riciclo continuo. In tutto questo, non mi pare ci si attacchi nomi o categorie ontologiche. Mentre respiriamo, non siamo Ermenegildo o Concetta, siamo mondo. Non respiriamo perché siamo timidi: non è che la nostra (ma davvero si possiedono le emozioni e i modi di relazionarsi al mondo? Qualcuno potrebbe spiegarmelo, perché non mi è molto chiaro?) timidezza, sapientemente coniata dalla nostra eccezionalità, che plasma un certo modo di respirare. No, respiriamo tutti secondo certi meccanismi corporei e la timidezza è piuttosto qualcosa che circola tra noi ed altri: lo scontro che si produce è la timidezza, ma noi non siamo timidi. L'unica cosa che possiamo dire con certezza è che siamo fatti d'aria. Che pensieri e idee ci attraversano, ma che non sono nostri: sono flussi, sono processi che si creano proprio perché esistiamo, come qualunque altro. 

Non so se queste cose scritte dopo notti risicate, sacrificate al detto sociale della produttività lavorativa, possano considerarsi un manifesto di qualcosa. Io, futurista mentecatta? Ma anche no. Questo però rivendico: per poter essere in linea con il mondo, farsi esistenza, bisogna sbarazzarsi dei nomi, dell'identità. I migliori romanzi sono stati scritti proprio perché nessuno sa dell'esistenza dello scrittore, oppure quest'ultimo è troppo lontano da noi spazio-temporalmente per poter associare a quel flusso di coscienza meraviglioso che ci trascina e ci fa dimenticare di deadlines, istangram, cure dimagranti, a qualcuno al quale, allegedly, attribuire la genesi. Se smettessimo di considerare il genio creativo come una serie di individui straordinari, ma come esseri viventi nell'atto di essere dentro al flusso della creazione, forse cominceremmo a pensare anche che tutta questa smania di farsi vedere danneggia il nostro vivere. Siamo troppo preoccupati di darci in pasto agli altri come un prodotto finito, un bell'oggetto da rimirare, per poter apprezzare una giornata di sole, un groviglio di rovi di more, un libro. 

In sede museale, si sta cercando di dare un nome e un volto dietro a tanta bellezza rapita da secoli di colonialismo: ecco che un anonimo che ha realizzato quel dipinto Mithila si chiama, che so, Rajesh e vive in quel distretto suburbano, ha cominciato a creare nell'anno xxxx. Certo, sappiamo perché abbiamo scritto tutto questo. Perché Rajesh prima veniva calpestato, usurpato, tiranneggiato. Le sue creazioni erano nostri bottini di guerra. Per questo ora vogliamo darci un nome a questi manufatti, per riabilitare Rajesh nella sfera dell'eccellenza, nel dimostrare a lui (ma soprattutto alla nostra coscienza) che siamo su un piano di parità. Rajesh sarà ben contento di entrare in questo circolo: in fondo, anche lui ha bisogno di avere qualcosa da mettere sotto i denti, un tetto sotto il quale dormire e ripararsi. Tuttavia, mi chiedo, è davvero un qualcosa di positivo sul lungo periodo? Alla fine gli artigiani che ho conosciuto sono persone straordinarie che fanno quello che fanno perché "se lo sentono". Un tempo quest'enfasi sull'autorialità non era così forte e, forse, si produceva qualcosa di più bello, ci si divertiva di più a farlo. Senza instagram e milioni di follower che ti fanno il tifo da stadio. Non ne avevi bisogno e vivevi meglio. Soprattutto, in modo più sano, perché non ti preoccupavi di rincorrere l'eccellenza e l'approvazione, ma sperimentavi, arricchivi la tua esistenza. 

Rivendico l'anonimato e voglio creare il più possibile con nomi falsi. 

Dicembre 2020



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