Smarginatura: la violenza di genere ed Elena Ferrante
Non
parlerò della mia personale posizione rispetto al primo libro della
Ferrante, delle sensazioni contrastanti che mi ha lasciato
leggendolo, del mio personale rapporto con relazioni amicali
femminili ambigue, come quella tra le due protagoniste. Vorrei invece
sottolineare quello che sta attorno a questa relazione, non
propriamente sana ed equilibrata, forse un'espressione metaforica
della lotta tra opposti che si dipana nelle pagine urlate della
Ferrante, in altre parole la violenza di genere. Si dirà: certo,
questa violenza è storicamente e culturalmente situata nella Napoli
del secondo dopoguerra, nelle sue borgate che si tingono di toni
ferini. Una delle due protagoniste accusa in special modo
quest'essenza animalesca sperimentando un fenomeno che lei definisce
di "smarginatura", quando cioè le cose e le persone non
sono più separate, ma si confondono, estraniandola e alienandola.
Ecco che il suo amatissimo fratello diventa un mostro ricavato dalla
somma di organi dotati di vita propria: bocca, occhi, orecchie, mani.
Ecco che un padre di famiglia confonde la propria figlia con un
oggetto vecchio, passato a miglior vita e, quindi, passabile di
essere gettato fuori dalla finestra, secondo una tradizione popolare
legata all'anno nuovo.
La
vita, specie quella femminile, è, letteralmente, poca cosa, in pasto
ad un padre padrone, che sia il proprio padre di famiglia o il
padrino camorrista che gestisce le sorti del rione. Una violenza
generale, cacofonica, che si trasferisce alle cose: piatti spaccati
in un accesso d'ira, bottiglie esplose attraverso un dolore e una
rabbia inespresse a parole ma trasmesse per osmosi all'ambiente
circostante. Un circolo vizioso di tossicità: l'ambiente alimenta
odio e viene nutrito da quello stesso odio. Soprattutto, un'apparenza
di libertà che consiste nell'abbracciare una prigione più larga,
più areata, che sia lo studio competitivo e privo di piacere, o un
amore di convenienza. Quello però che dovrebbe far riflettere è che
questa violenza circoscritta spazialmente e temporalmente è parte di
una violenza di fondo, strutturale e trasversale.
Quest'ossessivo
confronto con le altre, con i loro corpi, con i loro successi, non è
esso stesso un prodotto di quella violenza di genere? Talmente e
perfettamente instillata da fare di sé stessi il proprio carnefice?
Quante Lanù e Lela ci sono oggi, in Italia e altrove? Un blog
femminista, Al
di là del buco o Abbatto
i muri,
definisce questa tipologia di violenza come slut
shaming, dove il confine tra vittima e carnefice è molto
labilerei però anche ad altre tipologie d'odio, come l'odio
di sé stessi degli ebrei assimilati, dove l'antisemitismo è
talmente radicato che diventa parte dell'identità ebraica, appunto.
Quel monito, della maestra e della migliore amica, così come dei
genitori, di essere la migliore, la più brava a scuola, in un
percorso di ascesi culturale, non risuona in ciascuna donna, giovane
o vecchia, di qualsiasi credo politico o religioso, di qualsiasi
strato sociale? L'idea che bisogna sempre dimostrare di essere "più
di tutti" per potersi conquistare un proprio ruolo all'interno
della società, perché chi fa parte del sesso forte non ha bisogno
di queste lotte contro sé stesse?
L'Italia
continua a detenere
il
triste primato europeo della violenza sulle donne,
e campagne politiche come quella del Fertility
Day,
rendono la lettura della Ferrante, per quanto disturbante (almeno per
me), necessaria, specie per quelle donne, ragazze, bambine, che non
hanno un’idea chiara di cosa sia il femminismo.
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