Sole Alto, Dalibor Matanić (2015)
Interessante avere una visione croata del conflitto nella
ex-Jugoslavia, specie se si considera che gli abitanti di Zagabria non si
considerano e non vogliono essere considerati balcanici. Come sostiene Slavoj Žižek, balcanici
sono sempre altri. Gli sloveni si considerano
mittel-europei, per i serbi i veri Balcani sono la Macedonia e il Kosovo, per i
croati il confine tra civiltà e inciviltà si ferma nei loro confini. Un
aggettivo evidentemente scomodo, balcanico. Un aggettivo che viene applicato in
altri contesti, vedi il massacro tra Hutu e Tutsi in Rwanda e Burundi,
rinominati come “i Balcani dell’Africa”. Scomodo, dicevamo. Forse perché ad
esso è associato qualcosa di ferino, di inumano, proprio della guerra che ha segnato
i suoi abitanti per quasi un decennio, inarrestabile e con un odio viscerale,
indicibile e spaventoso. Quando sono andata a Zagabria, l’estate scorsa, sono
rimasta sorpresa da quanto di quella guerra si taccia: nessun monumento, nessun
museo. Gli abitanti cercano di darsi una parvenza di tranquillità, di voglia di
benessere, anche se l’aria che si respira è tutt'altro, come una polveriera
pronta a scoppiare e che si tiene nascosta sotto il letto. Per questo Sole Alto è particolarmente interessante:
la visione di un croato dei rapporti tra serbi e croati, metaforizzati in tre
storie d’amore che si susseguono nell’arco di tre decenni: il 1991, anno di
inizio della guerra d’indipendenza croata, il 2001, quando ancora si raccolgono
le macerie di ciò che è stato (la guerra in Kosovo finisce nel 1999), e il
2011.
Una grande curiosità attraversa i
due popoli, come due cani che si studiano e non sanno se sono tra amici o nemici.
Prima la forza di attrazione è spensierata, almeno per la giovane coppia
(interpretata dalla promettente Tihana
Lazović e Goran Marković, entrambi croati;
Intervista interessante all'attrice principale), anche se minacciata dalle
tensioni che cominciano ad esplodere e di cui le relazioni familiari non sono
che uno specchio o una cassa di risonanza. Case, paesaggi, sole, acqua
condivisi, eppure vissuti come radicalmente diversi: da una parte il
crocefisso, dall’altra l’assenza di qualsiasi simbolo religioso. Il solco si
allarga inesorabilmente: la seconda coppia, nel 2001, è attraversata da non
detti, da silenzi che pesano come macigni. Un’inimicizia e un odio che si porta
dentro, macerando e producendo ulteriore veleno. Eppure la forza di attrazione
continua a giocare la sua partita e ad essa si soccombe, proprio malgrado. Le
conseguenze non tardano a venire, come nel caso della terza coppia (gli attori
sono gli stessi, cambiano i personaggi, ma non i corpi), allontanata dalle
famiglie per salvare il proprio onore nazionale.
Il
ruolo del corpo qui è fondamentale: un corpo sempre uguale a sé stesso, con gli
stessi bisogni e voglie, stesse paure, stesse rigidità. Stesso sole, stessa
acqua, stessa passione, stessa ambiguità lancinante. La bravura degli attori
sta proprio in questo: scrivere una storia sulla propria pelle, renderla densa
e ricca senza ricorrere alle parole. Nella scena principe, che, non a caso, è
stata commentata dal regista nella rubrica del New York Times “Behind the scene”, l’amore comincia a sbocciare
attraverso dei gesti minimali, al limite dell’autismo e della ripetizione
ossessiva: la ricerca costante di un ritmo comune, due armonie diverse che
compongono la stessa melodia, pur correndo in senso parallelo. È come se si
stessero chiedendo a voce alta: “Mi piaci, però mi fai paura. Posso fidarmi di
te?”.
Una scoperta, quella della passione, che però si
richiude immediatamente, il rischio è troppo grande, troppo spaventoso
rinunciare alle proprie paure e fantasmi. Siamo diversi, non siamo destinati a
continuare il cammino insieme. E questa diversità diventa una barriera,
costruita dagli altri, da noi stessi, o da entrambi.
Un continuo lavoro di rimozione e di rievocazione
del rimosso, una rabbia e un bisogno di capire, capire cosa si è perso in tutta
questa furia cieca, ma pur sempre sentita come parte di loro stessi. Il film
non lascia lo spettatore con una fiducia nella ripresa di rapporti pacifici:
quello che sembra auspicabile, quello a cui si anela è l’indifferenza. Ma gli
uomini sono uomini, fatti di carne e sangue e alle leggi di natura non si può
scappare: la primavera di De André c’è, ma viene soffocata, forse perché
ammettere l’amore significa auto-dichiararsi privi di senno, nella
determinazione che ha portato allo squarcio più totale. Un bisogno di capire
che è anche il mio, con ancora più domande nella testa.
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