Quaderni da New York #2 Sogno a Williamsburg



Grazie a quella breve sosta a Williamsburg che mi portò alla lettura di “Danny l’eletto”

Esther aprì gli occhi. I sicomori davanti casa gettavano sprazzi di luce dorata che filtrava attraverso la tenda della finestra. La sorella maggiore, Hannah, si era già alzata da tempo, perché quella mattina doveva andare in visita ai genitori di Baruch, suo futuro marito, al quale era stata promessa quando aveva appena due anni. Così è l’usanza presso i chassidim, e anche Esther si sarebbe dovuta rassegnare a un futuro costruito da altri.
Il formicolio alle palpebre era la conferma che, ancora una volta, era tornata alla realtà, alla quale cercava il più possibile di sfuggire: di giorno viaggiando con le pagine di uno dei tanti romanzi che divorava, e di notte sognando. A differenza di altri, per lei il sonno non era una perdita di tempo o, addirittura, una pausa mortifera del vivere, ma costituiva un’eccitante possibilità di impersonare vite  che sarebbero spettate ad altri. Più volte aveva maledetto il giorno in cui era nata… Si era sempre chiesta perché le fosse imposta una rigida separazione degli spazi con l’universo maschile, perfino nei mezzi di trasporto. Perché reprimere la propria curiosità del mondo per lasciar spazio all’obbedienza verso la madre e al dovere di diventare a sua immagine e somiglianza, ovvero una massaia che riverisce costantemente il marito e la sua supposta superiorità intellettuale, alla quale è stato insegnato di tenere gli occhi bassi in presenza di un uomo? L’aveva sempre affascinata la yeshivà del quartiere, con le sue luci e le scale sempre gremite di giovani studenti e di rabbini che, come goffe formiche o irosi pinguini, scendevano o salivano costantemente, facendo oscillare i loro cernecchi e magari scuotendoli con forza se presi da un improvviso fervore durante un’infuocata discussione che non aveva trovato estinzione all’interno delle aule.
Quanto le sarebbe piaciuto poter partecipare alle discussioni tra suo fratello e suo padre, un compositore ucraino che vent’anni prima aveva deciso di sfidare lo sguardo della Statua della Libertà e i controlli di Ellis Island per sfuggire ai pogrom e alla sempre più crescente ondata d’odio dei goy. La porta chiusa dello studio del padre era una ferita che non si sarebbe mai rimarginata: il simbolo più lampante di non poter essere fiera di sé stessa e della sua intelligenza, che gli permetteva, senza alcuna difficoltà, di ripetere a memoria i passi del Talmud origliati sulla soglia e di anticipare il fratello nelle risposte alle domande paterne sui cavilli esistenziali e scritturali sollevati da quei versi, recitati ritmicamente come tante frasi musicali.
La affascinava oltremodo la gematryia, la possibilità di una minuta, quanto intima, corrispondenza tra il mondo e Yaweh, un fiato creativo inintelleggibile ma intuibile superficialmente, come un presentimento o un déjà vu, attraverso quelle cifre numeriche. Il suo sogno più ricorrente era quello di divenire un rabbino, di poter scrutare nell’anima dei suoi simili e di essere loro di sostegno quando il mistero della vita riusciva incomprensibile.
Mai però avrebbe desiderato di dover girare per le strade di Brooklyn come un rigido pinguino… Anche se il suo modo austero e antiquato di vestire, imposto dalla comunità, la metteva spesso in imbarazzo, specialmente quando era costretta a varcare la soglia di Williamsburg e imbattersi in qualche sua coetanea goy, avvolta in colorati vestitini, non veniva mai osservata così morbosamente come nel caso del fratello Chaim o del padre Mordechai.
Riflettendoci ogni tanto, mentre era seduta alla finestra guardando i sicomori volteggiare alle carezze del vento serale, pensava che, in fin dei conti, tutti i chassidim si fossero costruiti delle enormi gabbie dorate, quel che variava ero lo spazio al loro interno, i centimetri cubi di ossigeno da poter respirare. A lei e al resto dei membri femminili della comunità era concessa una metratura notevolmente più ristretta. Sognare era per lei un modo per evadere da quella gabbia dorata.
Quella notte aveva sognato di camminare stretta nelle sue scarpette nere. Albeggiava  e l’aria era frizzante al punto giusto per aver un bel colorito sulle guance. Decise di lasciar perdere le commissioni che le aveva dato la madre e di fare una passeggiata sulla promenade, anche se questo avrebbe significato uscire dal guscio protettivo di Williamsburg. Aveva una voglia matta di veder sfrecciare i battelli e osservare le sfumature della tavolozza dell’Oceano che si increspava sotto il loro movimento. Aveva già camminato per un bel tratto di strada ed ecco che, a Borough Hall, vide di fronte a lei  un piccolo chiosco di bagel. “Strano che ci sia un chiosco di bagel tra i goy…” pensò tra sé e sé. Un pizzicore strano allo stomaco, che, inizialmente, si era annunciato quasi inavvertitamente, come l’archetto l’istante prima di scivolare sulle corde del violino, amplificò la sua presenza con un sordo gorgoglio (i suoi sogni erano talmente realistici che percepiva le stesse sensazioni corporali che aveva da sveglia). Qualcosa fece sì che le sue gambe restassero immobili e che i suoi occhi cominciassero a scintillare copiosamente alla vista di quei bagel dalla consistenza burrosa.
La sua attenzione nei confronti di ciò che divenne una delle specialità newyorkesi le impedì di accorgersi di quel cappotto color senape, appostato a un angolo del chiosco.
Il proprietario del cappotto dal colore così improbabile era un ebreo apricosim, su per giù con qualche anno in più sulle spalle esili, dal ciuffo mogano che faceva risaltare la papalina blu elettrico. I suoi occhi verde foglia considerarono con leggerezza la nuova arrivata, come se l’apricosim si aspettasse di vedere quella ragazzina dai grandi occhi indaco e dai riccioli biondo cenere, avvolta in un paltò troppo grande per la sua gracilità elegante e dai piccoli, minuti, piedi.
“Signorina, vuole per caso un bagel?” Esther trasalì. Finora non aveva preso in considerazione che ci fossero delle persone intorno a lei, erano le sue sensazioni a guidarla e a non farle sentire la solitudine. “Mi scusi se non mi sono presentato prima. Era così interessante osservare le sue emozioni riflesse nei suoi occhi.” Una guancia di Esther avvampò. “Mi chiamo Abraham, studio letteratura inglese alla Brown University e nel tempo libero scrivo racconti brevi per il New Yorker, anche se vorrei, prima o poi, che qualcuno pubblicasse il mio romanzo. Mi affascina guardare i passanti ed osservare i movimenti dei loro sguardi, mi suggeriscono sempre una nuova storia.”
Esther, riavutasi dall’imbarazzo, si accorse d’un tratto che si trovava sì a Borough Hall, ma tutto appariva diverso… I calessi e i tram elettrici erano scomparsi. Lo stesso apricosim che le parlava sembrava venuto da altri tempi e spazi. “Sì, comprendo il suo smarrimento.”- proseguì Abraham, dopo aver fatto una lunga pausa osservando sorridendo lo stupore dipingersi su quel viso cesellato-“In realtà ci troviamo nella Borough Hall del 2011, non in quella degli anni Trenta. Esther, i suoi sogni sono sempre così fantasiosi! Ma è talmente intelligente che riesce realmente ad immaginarsi il futuro così com’è.”
La coscienza della Esther sognante fece sì che registrasse il fatto che ciò che stava accadendo era soltanto un sogno, ma, come spesso succede, questa consapevolezza non fu sufficiente a risvegliarla. “Io sono una creazione della sua mente per infonderle coraggio. Non smetta mai di sognare. Anche ad occhi aperti, continui a leggere e a scribacchiare… Magari tenendo i suoi cari all’oscuro di tutto. Anche se questo sarà doloroso, sappia che il sacrificio del silenzio del suo genio sarà ricambiato nell’avvenire.” Abraham fece un’altra pausa, perché Esther, anche se non emise una parola, gli stava parlando: il tremolio nervoso delle palpebre stava per una richiesta di spiegazioni. “La cultura e la fantasia ebraica saranno fondamentali per questa città… E non tema, in un futuro ci saranno donne che potranno coronare il suo sogno di poter fare il rabbino. Creda alle mie parole e potrà trarre maggior piacere dalle sue fughe fantasiose grazie a questa nuova serenità.”
Le labbra sottili di Esther cominciarono faticosamente ad animarsi: “Ma in questo futuro esisteranno ancora i chassidim?”- chiese con un filo di voce. Come se Abraham sapesse già che gli avrebbe posto quella domanda, fece un sorriso enigmatico: “I sogni non sarebbero così belli, se non esistessero gabbie. Le gabbie sono fatte per essere aperte… Io sono il risultato futuro di uno scricciolo che riuscì a sgattaiolare fuori dalla rete.”
Ci fu qualcosa, quella mattina, che contribuì a rendere la stanza ancora più luminosa. Il sorriso di Esther.

(scritto nel Gennaio 2012)

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