P, Pioggia

Il bollitore del té emise il classico click che segnalava la conclusione della bollitura. Accantonò la biro a sfera e si diresse in modo meccanico verso la credenza. Prese la sua tazza preferita, una riproduzione di un quadro di Pollock, e si verso l'acqua bollente. Poi stazionò di fronte al reparto di bustine che aveva collezionato ormai da anni e scelse un té bianco leggermente aromatizzato ai fiori di ciliegio e tornò a sedersi sul suo tatami. Non aveva voglia di sgombrare il pavimento; aveva quella sonnolenza tipica che lo investiva dopo giorni di febbre alta. Si chinò leggermente e prese fuori, senza alzarsi, un album di fotografie. Fuori pioveva placidamente ma a ritmo sostenuto. Tokyo possedeva quel silenzio dato dall'agglomerarsi di tanti piccoli e placidi quartierini.
Sapeva esattamente cosa cercare nell'album. Dopo essersi trasferito da un paio di mesi nella metropoli, lasciatosi alle spalle il piccolo atollo natio, era spesso scosso da ricordi più o meno insistenti. La pioggia gli ricordava il primo giorno in cui l'aveva conosciuta. Se ne veniva con la cartella in mano, attorniata da un gruppo di sue compagne di scuola. Era rimasto colpito dal suo candore, dalla luminosità della sua pelle, resa ancora più abbagliante da un sorriso timido, appena percettibile. Non era una bellezza vistosa, al contrario dava l'idea di un qualcosa di fragile, di delicato, come un fiore di loto appena appena dischiuso. L'aveva già conosciuta quell'estate che era rimasto a lavorare nel piccolo ristorante paterno. Abitava a pochi caseggiati di distanza e veniva spesso ad ordinare del sushi sul far della sera. Non si erano mai scambiati una parola, ma gli occhi di lei erano sufficienti perché comunque si parlassero. C'era qualcosa di non chiaro in tutto questo. Era come se lei venisse da un tempo remoto, da un passato che si premurava di celare con cura. Si era sentito talmente stupido a non invitarla a passeggiare sul lungomare una volta finito il turno di lavoro. C'era in lei un non so che che lo metteva costantemente in guardia dall'avvicinarsi troppo. Ormai si era abituato al lungo scambio di sguardi, punteggiati da qualche macchia di rossore su quelle guance liscissime. Ma quel pomeriggio di pioggia qualche meccanismo si mosse in lui e gli fece prendere coraggio. La urtò leggermente, non con violenza, ma quanto bastava per farle cadere qualche foglio per terra. Nella concitazione, riuscì ad accorgersi che non erano compiti, ma pagine di un diario, forse intimo, forse solo qualche annotazione di un racconto. Anche a lui piaceva moltissimo scrivere, per cui quella minuscola informazione l'emozionò ulteriormente. Si scusò per il piccolo incidente e si presentò, mentre le compagne li avevano superati soffocando le risatine. Gli occhi di lei, così grandi per gli standard giapponesi, le si illuminarono, ma la piccola bocca a cuore tremava vistosamente. In un sussurro, si presentò anche lei, per poi grattarsi nervosamente la testa. Scoprì che frequentava la sua stessa sezione, ma un anno indietro rispetto a lui. Le chiese se poteva sedersi vicino a lei durante la pausa pranzo in mensa, aveva voglia di riprendere il discorso che ora dovevano entrambi interrompere a causa dell'inizio delle lezioni. Un piccolo cenno del capo gli fece assaporare una gioia sconosciuta. Da quel momento, condivisero i pasti ogni giorno. C'era come un codice non scritto tra loro due. Non si confidavano mai cose intime, eppure avevano entrambi la sensazione di essersi sempre conosciuti, in fondo, come gemelli separati alla nascita.
Dopo due anni di pranzi insieme, un giorno accadde. Aveva appena piovuto. Stavano rientrando da lezione, ma nessuno dei due aveva voglia di andare a casa e separarsi, per cui ogni scusa era buona per indugiare, per scrutare il viso dell'altro. Tutto ad un tratto, sentì come un demone benigno impossessarsi di lui. Le prese la mano sottile nella sua e la trascinò in un angolino verde con una graziosa altalena. La fece salire sul predellino con delicatezza. Senza una parola, le accarezzò il mento, dolcemente, con il pollice. Lei chiuse gli occhi, come impaurita da quel sentimento, sempre esistito, ma in quel momento così ovvio. Era tempo di esami finali. Lei gli aveva già annunciato da tempo la sua decisione di andare a Parigi, all'Accademia delle Belle Arti. Era una morte preannunciata della loro non-relazione, ma fino all'ultimo lui non voleva pensarci. Era impensabile respirare senza avere lei al suo fianco. Nessuno dei due era fatto per le storie sdolcinate da adolescenti. Eppure erano certi che non avrebbero potuto fare a meno l'uno dell'altra. Semplice. Come quelle pozze d'acqua appena formatesi. Lui respirò a pieni polmoni. Voleva fare entrare tutto quell'istante dentro di sé. Si promisero che si sarebbero sempre scritti, e che lui la sarebbe andata a trovare a Parigi quell'estate, non appena finito il primo anno universitario. 
E così fu. Nessuno dei due commentò mai quella carezza, quell'attimo di follia, di prevalenza del sentimento sul quotidiano. Ma entrambi erano consapevoli che nulla sarebbe stato lo stesso. Almeno finché lei non lo venne a prendere all'aeroporto Charles de Gaulle. Il viso, prima un ovale perfetto di purezza, era visibilmente tirato, segno di lunghe notti insonni passate a piangere. La voce era come incrinata, una nube di pensieri negativi si era depositata sulla curva del suo sorriso. Gli raccontò del periodo durissimo di adattamento al modo di vivere europeo. Alla paura degli esami, alla smania di voler sempre arrivare prima in tutte le prove. La competizione era alta, per quanto non con le stesse modalità giapponesi. Gli raccontò della sua malattia. Aveva cominciato a saltare regolarmente i pasti, o a fare piccoli spuntini al pomeriggio per poi, il più delle volte, scappare in bagno a vomitarli. Gli era chiaro che Parigi non c'entrava del tutto in questo suo malessere, che c'era altro a monte. Ma rispettò il fatto che lei non vi accennasse minimamente. Un giorno, erano appena rientrati da un pomeriggio di rara felicità. Dopo tanto tempo l'aveva vista ridere, la sua ragazza di un tempo (nella sua testa era sempre stata sua) era ricomparsa e la sofferenza sembrava essersi sciolta come neve al sole. La luce particolare francese le conferiva una freschezza per la quale era impossibile restare indifferenti. Per questo, quello che seguì dopo fu come se mille coltelli gli avessero squarciato il petto. Un minuto prima stava ridendo di gusto. Un minuto dopo, eccola lì, riversa per terra nel monolocale preso in affitto.  Cerco inutilmente di rianimarla.
Poi un grande vuoto, nero. Nessun ricordo di quegli istanti drammatici. Fu come risvegliato dal camice bianco del medico. Niente. Non c'era stato nulla da fare. Il suo corpicino non aveva retto. Consunzione. Gli chiesero se conosceva i familiari. In tutti quegli anni, incredibile ma vero, ma lei non vi aveva mai fatto cenno. Gli consegnarono i suoi effetti personali. Non aveva mai visto quel ciondolo. Una piccola foglia di ciliegio intrappolata in un medaglione di vetro. Un piccolo cartellino con su scritto: "Parco. Carezza. Altalena". Immediatamente capì. Ripose il medaglione nel borsellino degli spiccioli, mentre il resto, vestiti, scarpe, ombrello, li lasciò in un cassonetto di una charity francese. Riempì un'intera valigia solo dei suoi disegni. Era innegabile che avesse un grande talento e che nessuno avrebbe avuto modo di apprezzarla. I suoi compagni di accademia sembravano catapultati in un altro mondo. A parte qualche chiacchiera sulle tecniche da utilizzare, per loro lei era un mistero. Si erano accorti della sua malattia, ma nessuno aveva trovato il coraggio di rompere il muro del silenzio che aleggiava in quel corpo sempre più smunto.
La vita a Tokyo riprendeva, lentamente e dolorosamente, ma riprendeva. Si dedicò totalmente al lavoro di scrittore, il perimetro quadrato del suo cuore si era fatto piccolo piccolo, non c'era spazio neanche per uno spillo. Tranne per quel ciondolo e qualche foto di loro a scuola. Accarezzò con la stessa dolcezza di quella volta l'ovale di lei in primo piano nella foto. Richiuse l'album. Una stanchezza pesantissima lo avvolse. Si addormentò pensando a lei sorridente nella pioggia. E con la pioggia sognò di quel pomeriggio passato a ridere a Parigi. Pioggia. Serenità. Finalmente.

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