H, hotel

Si fece una doccia. Dopo aver passato un'intera giornata in colloqui di lavoro, era proprio quello che ci voleva. Rientrare nel proprio guscio, abbandonarsi alla pigrizia e niente più. Questa camera con vista sullo skyline, un misto di palazzi ottocenteschi e di torre di vetro, in bilico tra aria e acqua, probabilmente ne aveva viste tante. Coppiette felici e coppie scoppiate, finanzieri impettiti, giovani sull'orlo di un collasso emotivo, sogni intrappolati o avverati, calzini spaiati, colazioni in camera, canali della pay tv, cartellini notdisturb, risate, telefonate a tarda notte, sveglie all'alba, carezze, lacrime, urla, canzonette. Le mattonelle della doccia avranno rimbalzato un sacco di onde sonore, avranno specchiato centinaia di visi. In quel momento, però, lei pensava soltanto a sé e non alla moltitudine anonima che l'aveva preceduta in quei gesti quotidiani. Il voler essere a casa ma il sentirsi in un'altra dimensione. 
La cosa che le piaceva di più del pernottare negli alberghi erano le boccette di shampoo, che collezionava ormai da un paio d'anni, religiosamente ed ermeticamente chiuse, e i biscotti, i cioccolatini omaggio lasciati sulle coperte fresche di bucato. L'immancabile bollitore. La moquette. Stava così bene nelle stanze d'albergo, tanto quanto a casa regnava l'inferno. L'idea di mettere una distanza, una parentesi tra la lei del quotidiano e la lei in viaggio costituiva un incentivo a questi viaggi di lavoro. Quando riemerse dalla doccia, si accorse che c'era un messaggio vocale nella segreteria del suo cellulare. Era sua madre che voleva sapere quando sarebbe andata a trovare lei e suo padre con il nuovo fidanzato, un così bravo ragazzo, romantico ed abitudinario. Forse è proprio questa banalità che lo rendeva un potenziale futuro genero agli occhi della madre. Quello che lei non capiva era appunto che l'abitudine alla fine stanca. Ne era sicura. Prima o poi avrebbe incontrato qualcuno più coinvolgente, e qualsiasi assicurazione sarebbe stata inesorabilmente abbandonata. Ma oggi non ci voleva pensare al fardello di una relazione scontata. Voleva la sua nuvola rosa di comfort, di dolce sospensione.  Perciò non si preoccupò di richiamare, mamma può anche aspettare il mio rientro. Un pensiero fulmineo e sgradevole le scivolò sulle guance, depositando una lacrima opalescente. Accese la televisione. Il bello dell'albergo è che ci si accorge di programmi mai visti o scartati, per il semplice fatto che si ha la giustificazione del non essere a casa e di non dover adempiere alcun compito. L'assenza di responsabilità, se non quella di non distruggere la camera e di non perdere le chiavi. Non fare rumore in corridoio. Per il resto era un delegare, come in un gigantesco asilo per bambini cresciuti. Si guardò un film visto anni addietro sgranocchiando dei biscotti con le gocce di cioccolato che si era portata da casa, in caso venisse infastidita da capricciosi morsi della fame.
Le luci della città la rendevano un piccolo gioiello, una sorta di albero di Natale, il cielo limpido e sgombro di nuvole. Così come era apparsa di colpo la lacrima, così adesso si sentì di indossare un sorriso, uno di quelli belli che rendono gli occhi più luminosi. In fondo, la giornata era stata soddisfacente. E domani si sarebbe concessa un giro per librerie prima di prendere il treno di ritorno. Aveva voglia di leggerezza senza essere superficiale, ingenua senza essere stupida, soddisfatta eppure incompleta. Voleva un mattino pieno di promesse. Mentre pensò all'ultima volta in cui si era ritrovata da sola in una stanza d'albergo, aprì il minibar e si aprì dell'acqua tonica. Viaggiava sempre leggera, ma con tutto quello che le serviva. L'idea che la vita si potesse comprimere in un bagaglio a mano la rendeva fiduciosa: quello che rovinava la vita, ne era convinta, erano le aspettative. Tagliare tutto e fermarsi all'essenziale, questa era la sua filosofia, che applicava più o meno a tutto, dalla scelta della musica da ascoltare all'autoradio, alle confidenze da raccontare davanti ad una luce soffusa e con la mano nella mano di uno sconosciuto. Tanto tutti sono imperfetti, per cui perché avere paura di non essere abbastanza? Noi bastiamo a noi stessi, pensava, mentre si guardava allo specchio lavandosi meticolosamente i denti. I piedi nudi sulla moquette lasciavano una bella sensazione. Ancora di più lo scivolare delle lenzuola sulla sua pelle e sulla sottoveste di satin. Si abbandonò al sonno. Nessuna maschera da dover indossare, solo lei e e quel materasso che aveva accolto tante altre schiene prima della sua. Uno, nessuno e centomila. Sparire nella folla sapendo di farla franca.

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