Fratture: Siria, odio, infelicità


Parlerò in un’altra circostanza dell’articolo del New York TimesFractured Lands, la cui traduzione in italiano è uscita in contemporanea all’originale per Repubblica quest’estate. Leggere il libro di Khaled Khalifa, Elogio dell’odio, mi ha riportata con la mente a quell’articolo, introducendo un punto di vista, lo sguardo interno, emico, che, in qualche modo, manca al puntuale e approfondito reportage americano. L’anonima voce narrante del romanzo—sappiamo solo che si tratta di una ragazza, della quale si percorre il lasso di vita che va dalla pubertà all’età adulta—parla a più riprese della nascita di un sempre più cocente odio, un odio che si mescola alla vita di tutti i giorni della ragazza, come una piantina che mette radici nel suo costato. Un sentimento che si spiega all’interno di una logica di purificazione, un dimostrare di essere più lungimirante di tutte le tentazioni quotidiane, una paura costante di non essere degna per le porte del paradiso. Un astio che si deve anche e soprattutto leggere all’interno delle dinamiche conflittuali in seno alla Siria degli anni Ottanta, squassata dalla contrapposizione tra un islam politico e una dittatura militare. Ci si esprime per altri-noi-loro-gruppoavversario, non si nomina mai chi è al di là della cortina, se non, in certe circostanze, con il termine degli Squadroni della Morte, venuto a indicare l’oppressione militare. L’Altro, multiforme e cangiante—ora occidentale o filo-occidentale (come Israele), ora gruppo religioso/etnico avverso—si forgia attraverso il desiderio di annientamento e di perfezione manichea di una ragazza come tante.
Una ragazza che vorrebbe fermare il suo corpo e tutte le stranezze che ne derivano. Una ragazza che non ha conosciuto l’amore e che si è ritrovata ingabbiata in un gioco più grande di lei, con incubi e pensieri che vorrebbe volentieri abbandonare. Sogni vorticosi, nei quali la realtà e la fantasia spesso non si riescono a distinguere: l’universo interno della ragazza risuona e combacia con l’esterno. L’odio rimbomba, fa da cassa da risonanza ad un periodo storico che sembra non conoscere nessuna risoluzione. Gli anni passano, ma Aleppo resta la stessa. In macerie e fiamme.

Vidi piovere miele dal cielo quando mi immersi nelle strade della città. Ci entrai come una straniera, indossando gli stracci di un’attrice drammatica alla ricerca di un teatro dove raccontare una storia tragica. Era la storia di alcune donne, uscite un giorno ammanettate dai portoni delle loro case, per essere gettate sui freddi sedili di una macchina. Dopo anni erano tornate, straniere sedute sui sedili di un autobus scarcassato dalle cui radio provenivano canzoni contadine. Avevano cercato i loro ricordi, ma non ne avevano trovato nemmeno uno a indicare che erano nate in quel posto. Una volta, quel posto era una città, poi si era trasformato in un cumulo di macerie infestato da fantasmi irriconoscibili, che avevano finito per rivelarsi i morti abbandonati da quelle donne. Ed erano gli unici a tirarsi dietro qualche sfuggente ricordo. A me apparve Maryam, sbucata dalla piazza di Bab al-Hadid, seguita dal gruppo di donne di Hajja Radiya con i loro tamburelli. Non le vedeva nessuno. Erano felici e raccoglievano il miele che pioveva dal cielo in giare che sistemavano sui tavoli che da un’eternità non venivano apparecchiati. Rondoni indiani volavano sulla città con pietruzze colorate nel becco. Cercavano quelli che erano scomparsi, svaporati nell’aria (Elogio dell’odio)

Quest’odio come può essere spiegato? Secondo Samir Kassir, c’è un’infelicità strutturale nel mondo arabo che è strettamente collegata ad un senso di impotenza rispetto ad un’alterità soverchiante e prepotente, reso ulteriormente più bruciante dalla memoria dei fasti passati, nei quali la crisi istituzionale e politica degli stati arabi non era conosciuta: solo un unico, grande sogno imperiale.

[…] sarebbe un errore imputare la crisi del concetto di cittadinanza a una predisposizione culturale, perché essa è in primo luogo l’effetto di un’altra crisi, quella che investe lo Stato.
[…] Unico “continente” in cui il deficit democratico affligge tutte le sue componenti, il mondo arabo è perciò anche il solo in cui l’assenza di democrazia si coniuga con un’egemonia straniera, di solito indiretta, talvolta soltanto economica, ma che altre volte è assimilabile—nei casi estremi, quello della Palestina e ora dell’Iraq—a un nuovo colonialismo. Ecco che allora al senso di impotenza alimentato da questa dominazione, tanto più cocente in quanti l’inconscio arabo lo raffronta alla nostalgia di una gloria passata e sempre vagheggiata, si aggiunge un’impotenza civica. Non solo i governi in carica non sono in grado di dare o di restituire ai propri stati un ruolo attivo nei rapporti internazionali, ma impediscono ai cittadini qualsiasi iniziativa che tenda, se non a cambiare i governi, almeno a dar loro, mediante la partecipazione popolare, un rinnovato vigore. O almeno una garanzia interna in grado di disinnescare all’occorenza una minaccia esterna. Si chiami Israele o Stati Uniti, tale minaccia è il pretesto per un permanente stato d’emergenza che, scavalcate le leggi vigenti, svuota l’azione politica e ne mette al bando gli strumenti regolatori, a iniziare dai partiti e dalle associazioni. Vista la crisi delle ideologie, a questo punto, per dare sfogo alla frustrazione e per veicolare la richiesta di cambiamento, non resta che il ricorso alla religione (L’infelicità araba)

Ma attenzione: non cadiamo nella trappola dello scontro di civiltà. Solo un’apertura al cosmopolitismo delle arti e un’umile opera di ascolto delle verità e documenti storici può restituire un futuro più ottimista. Troviamo un ago che faccia scoppiare tutto quest’odio
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Ricordare Lévi-Strauss: vale a dire che la “civiltà” non è un livello da raggiungere, e che da questo punto di vista non ci sono gerarchie “naturali” prefissate, ma anche che l’umanità è una sola poiché riposa su un fondamento antropologico comune. In altri termini: non ha alcun senso parlare di un “attacco contro la Civiltà”, o comunque non più che pretendere di classificare i popoli a seconda della loro adesione a una fede, musulmana o altro che sia. A questo punto forse è necessario precisare che il suprematismo non è solo “bianco”: se nelle società musulmane alcuni aderiscono all’islamismo radicale per difesa, sarebbe a dire perché si sentono minacciati, la retorica dei capi guerrieri di questo radicalismo è invece una tecnica di attacco, il cui proselitismo di conquista si giustifica definendo inferiore la civiltà “decadente” dell’Altro (L’infelicità araba)

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