A Calais, Emmanuel Carrère

Inevitabile il mio incontro con la "Giungla di Calais", il campo di immigrati insediato a pochi passi dalla Manica per sfidare la sorte e provare a farsi una vita migliore in Inghilterra. Un incontro fatto di filo spinato, di pietre e reti altissime, ma che in ogni caso non hanno impedito una visione, per quanto fugace, delle tende. Era una mattina piovosa, fredda. Una di quelle mattine nelle quali vorresti stare a casa, sotto al caldo delle coperte. Pensare che sotto a quella pioggia battente ci siano esseri umani che ci vivono è qualcosa che ti lascia dentro un'enorme vergogna. E tanta voglia di sapere. Per questo, quando è uscito il reportage di Carrère su Calais, la prima cosa che ho fatto è stata comprarlo e leggerlo.
Una lettura rapida. Una lettura che parte da una replica, quella di un'abitante di Calais che apostrofa Carrère: non sono due settimane che ti permetteranno di capire cosa sta succedendo a Calais, caro Carrère, e comunque il tuo desiderio di parlare dei migranti metterà all'oscuro le problematiche che noi cittadini affrontiamo ogni giorno. Chi ci pensa a noi? E Carrère accetta la sfida. Raccontare Calais attraverso i suoi abitanti. Non parlare dei migranti, tuttavia, è impossibile. È l'implicito, lo spettro che alberga ogni tipo di conversazione. Anche stando seduto nei caffè del paese, anche visitando il centro ricreativo-biblioteca, il tema salta fuori. 
Siete mai stati a Calais? Io sì. Anche prima che ci fosse il problema dei migranti, si aveva l'impressione di avere a che fare con una città fantasma. Nessuno si ferma a Calais. Tutti sono solo di passaggio, chi in uscita, chi in entrata nel Regno Unito. Una colazione sbrigativa e di scarsa qualità negli alberghi lungo l'autostrada e via. Forse è per questo che la sera che girai per Calais insieme alla mia famiglia avevo l'impressione che la gente ci spiasse dalle finestre, nascosta dalle tendine di pizzo e dalle facciate scrostate. Un'enorme università fuori dal centro abitato, una piazza con una minuscola aiuola fiorita, qualche tavola calda parecchio unta. Calais è tutta qua. Gruppi di ragazzi un po' rasati a zero, un po' sciancati. Difficile pensare che qualcuno possa cavarci una storia da tutta questa desolazione, eppure Carrère ci è riuscito. Non senza qualche difficoltà.
La prima cosa che salta all'occhio leggendo questo piccolo libro è innanzitutto un certo grado di indistinguibilità tra la rabbia dei migranti e quella degli abitanti. Sembrano entrambi dimenticati da tutto e da tutti, in questa costa di vento sferzante e gelido, sfumata nel grigiore e nella sabbia. Un'indifferenza che porta a re-iterare l'odio, a lottare per una buccia di patata in uno scenario di fame e siccità, per usare una metafora. Carrère non si schiera. Per quanto le ronde anti-migranti dei Calesiani arrabbiati, come li definisce lui, gli stanno dichiaratamente antipatiche, c'è uno sguardo che non giudica, solo la volontà di fornire un'antropologia di quei luoghi agli altri francesi e al resto del mondo. Un'isola di eccezionalità, tuttavia, viene rappresentata da una giovane donna di origine maghrebina, Ghizlane, prima assistente di laboratorio, ora lavora al McDonald's in mancanza di meglio (e qui, vi assicuro, il McDonald rappresenta un universo culinario e umano condiviso da molti). Nel cortile di casa sua, a ridosso della giungla, arrivano i migranti perché lì prende il cellulare, i figli possono giocare indisturbati con quelli di Ghizlane, la quale non ha nulla in contrario. Eppure i Calesiani arrabbiati dubitano dell'umanità di Ghizlane, facendo notare a Carrère che le persiane della casa sono abbassate. Prima di ripartire, Carrère va a controllare, per scrupolo, e le trova aperte. Un segnale di speranza nella grigia Calais?


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