Wu Ming "L'invisibile ovunque"

Il collettivo bolognese più famoso al mondo, i Wu Ming, ha annunciato che L'invisibile ovunque è l'ultimo romanzo di tipo storico della loro carriera, o, almeno, segnerà una pausa o un congedo più o meno temporaneo dal genere. In verità, avevano detto la stessa cosa all'uscita di L'armata dei sonnambuli, e così non è stato. L'invisibile ovunque, tuttavia, presenta una struttura narrativa nettamente diversa da Q, Altai, Manituana e, ovviamente, L'armata dei sonnambuli, cosa che fa pensare che i Wu Ming stavolta facciano sul serio.
L'invisibile ovunque prende la palla al balzo sulla scia del centenario della Grande Guerra. Come hanno rilasciato in un'intervista a La Repubblica, i Wu Ming non volevano lasciare perdere questa grande opportunità narrativa. Il romanzo in realtà è la raccolta di quattro racconti distinti, uniti tra loro da piccoli particolari non resi espliciti e lasciati come esche all'attenzione del lettore, primo fra tutti il Monte Grappa, teatro della trasformazione dell'esercito italiano in esercito d'assalto. Nella prima parte, si ha un racconto di fantasia imbastito su un soldato realmente esistito. Partito dall'appennino tosco-emiliano (e per chi è di quelle parti, la toponomastica evoca scampagnate di famiglia, raccolte di more e di castagne, pranzi e cene per le occasioni importanti), Adelmo cerca nella guerra una possibilità di riscatto dal faticoso lavoro di contadino, destino prospettatogli dal padre e da lui visceralmente odiato. Il secondo tracciato narrativo si occupa degli scemi di guerra, ovvero quanti, sotto le armi, impazzirono o finsero di essere matti per scampare alla vita di trincea, attraverso lo spoglio di archivi, in particolare di lettere e referti psichiatrici, e il riferimento ad una tesi di dottorato sull'argomento. Si tratta quindi di una via di mezzo tra il racconto e il documentario. Argomento interessantissimo quello degli scemi di guerra, ampiamente descritto nella presentazione del volume che i Wu Ming hanno fatto in un centro sociale a Bologna (evento pubblicizzato da Internazionale). In particolare, si delinea un diverso trattamento tra i soldati semplici e i generali, comandanti, ecc. Ferrara diventa il centro aggregativo di diversi esponenti artistici, tra i quali gli stessi De Chirico e Carrà, tra i quali scoppiò una guerra intestina riguardo a reciproche accuse di plagio (in questo periodo, per chi fosse interessato, c'è la mostra al Palazzo dei Diamanti su De Chirico e la pittura metafisica). Anche la terza e la quarta parte si occupano del rapporto controverso e, al contempo, affascinante delle avanguardie artistiche con la Prima Guerra Mondiale. Come nella seconda parte, il confine tra imitazione/finzione e follia reale è molto labile, spingendo il lettore a chiedersi il ruolo che la guerra ha avuto nel plasmare queste nuove correnti artistiche. È la stessa guerra capace di creare arte, nella sofferenza e nella distruzione? Quanto nell'arte è l'espressione distorta di quanto sperimentato in trincea?
Importante a questo proposito è la nozione di mimetismo. I Wu Ming hanno fatto diversi accenni, nelle loro opere precedenti, al mimetismo. Ne L'invisibile ovunque, il mimetismo trova, comunque, un'ampia cassa di risonanza. Mentre la quarta parte sviluppa il tema sotto forma di saggio, presentando la formazione dei commandi mimetici in Italia, su ispirazione del commando camaleontico francese, la terza parte inscena un dialogo tra la sorella di un giovane artista, caduto in battaglia, e il capostipite del surrealismo francese, André Breton, avvenuto tra le quattro pareti del suo studio-museo-feticcio. L'accostamento funzionale-comparativistico dei diversi feticci e lasciti artistici occidentali, operazione, se vogliamo, meta-mimetica, amplifica la sensazione che le avanguardie artistiche abbiano trovato la loro cifra stilistica, il loro precipitato eversivo nella guerra, in particolare nella sua negazione di un orizzonte confortante e confortevole nella vita di ogni giorno. In questa accezione, i movimenti dell'avanguardia artistica vengono, giustamente, descritti come un esercito silenzioso ed anarchico di pittori. Nella creazione della tuta mimetica e del motivo mimetico applicato agli strumenti di guerra, l'arte si fa scomposizione di forme e di colori (e guardando le diapositive proiettate dai Wu Ming sulle navi inglesi "camuffate" per depistare gli U-Boot, effettivamente si ha a che fare con veri e propri dipinti semoventi, quasi pesci cubisti), si offre inizialmente come un innocuo e passivo camaleonte, per difendersi dalla violenza, per poi essere rielaborato dal potere, che non ammette codardia (i renitenti, i disertori o, semplicemente, coloro che nel campo di battaglia non mostravano sufficiente "sprezzo del pericolo" vennero infatti giustiziati seduta stante, secondo la retorica "degli Arditi"), in strumento di offesa, in leopardo. Ed ecco che l'arte diviene strumento di morte, instillando il dubbio nel lettore delle possibili ingerenze del potere politico nella formazione della storia dell'arte così come noi la conosciamo.
La guerra ha reso indegno di fiducia ogni facile apparire del mondo. Se da questo trampolino avvolto dalle nebbie voglio interrogare l'angusta parvenza del mondo e trovarvi secondi, terzi, quarti livelli di realtà, tutti senz'altro più integralmente reali della mistificazione borghese, è a questi pittori che mi rivolgo, ai pittori che creano per sé stessi un modello interiore, i cui mondi non cessano di muoversi a meraviglia per ciò che costantemente ne affiora se solo si sa guardare. I quadri di Bonamore si osservano calandovi in picchiata da un chilometro d'altezza, oppure avvicinandosi alla loro materia fino a sentire sulla punta del naso il frizzare dei cristalli di neve. Bonamore sta dentro la guerra come si stava Jacques Vaché. Nell'atto creativo che si rigenera in noi di fronte all'aggettivo «mimetico» crepita, si carica di un magnetismo inatteso e proietta un significato non solo opposto a quello ricorrente nella critica d'arte, ma inconciliabile con esso. (André Breton, Appunti inediti per Il surrealismo e la pittura, taccuino 1928; citato a pagina 147)

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