Lenti sfocate

Fare un controllo ottico per la prima volta è un'esperienza che lascia una traccia immaginifica dietro di sé. Per quanto le tecniche possano essere le più d'avanguardia, gli strumenti i più avanzati, in qualche modo, si ha l'impressione di essere ancora rimasti ai primi passi del cinema, ai fratelli Lumière, per intenderci.
L'occhio è qualcosa di visibile ma che da sempre è collegato all'invisibile. Noi non vediamo i nostri occhi, è come se fossimo sempre sulla soglia di un film tridimensionale, una scatola nera, il nostro corpo, dalla quale escono fuori le nostre membra, ogni tanto la punta del naso e qualche ciuffo di capelli. Le lenti ci suggeriscono che la nostra impressione, la nostra idea di mondo è fortemente appesa al filo del funzionamento delle nostre pupille. Basta una messa non a fuoco, un occhio stanco per mandare in tilt il cervello, facendo confondere i contorni di un particolare di una foto, accavallare le lettere per farle sembrare tutte uguali o stabilire audaci equivalenze tra di loro, quando, invece, risuonano nell'ugola in modo completamente diverso, la quantità e la qualità di fiato differente.
Spesso non si pensa alla materialità del nostro sguardo, si cerca, anzi, di affibbiargli una forte dose di spiritualismo, di astratta immaterialità propria dell'anima, cartesianamente intesa, quando è lungi dall'essere solo una condizione ipotetica, ma un qualcosa che riflette al contempo gli acciacchi della nostra scatola nera/corpo e l'urtare, intrattenersi di quest'ultimo con il mondo esterno. Per quanto schermo, il mondo è dotato di vita propria, agisce alle nostre spalle e ci ingloba. 
Andare dall'oculista diviene, perciò, una pratica di decentramento di quello che si dà per scontato, ovvero l'assoluta efficienza del nostro corpo-macchina e l'auto-evidenza di ciò che vediamo, per arrivare a vedere tutto sfumato ed incerto, delicato da maneggiare, e costantemente alla ricerca di un dialogo con l'altro, non importa se sia l'oculista stesso al di là della lente o le lettere sul dorso di un libro abbandonato su un tavolo a metri di distanza da noi. L'altro costantemente ci rimanda a lui stesso e a noi stessi, senza soluzioni di continuità. Siamo noi a perderci nelle illusioni ottiche o sono le illusioni ottiche a farci perdere la strada? Il cervello, per quante spiegazioni possa darsi, resterà sempre aggrovigliato dal dubbio.

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