Le lacrime di Nietzsche, Irvin D. Yalom


Attratta dall'accostamento, quasi ossimorico, tra lacrime e Nietzsche, particolarmente assorta dall'atmosfera che respiravo in quella libreria, a me molto cara per motivi affettivi, mi ero detta di dare una possibilità a questo romanzo. Per poi accorgermi che l'autore, Yalom, uno psicoterapeuta e psichiatra statunitense, ha sfornato altri testi con titoli come Il problema Spinoza e La cura Schopenauer, mi sono insospettita, nella fattispecie ho pensato di trovarmi di fronte ad un furbo scrittore di best-seller che aveva trovato la ricetta fortunata, un mix di psicoterapia e filosofia, il tutto condito con toni romanzeschi. L'inizio pareva smentirmi, trovandomi di fronte ad uno scritto genuino, capace di ammaliare. Forse perché io ho sempre trovato intrigante la Vienna Ottocentesca, con quel suo charme decadente ed inquieto, ma la prima parte del romanzo, l'incontro (del tutto inventato, si intende) di Lou Salomè con Breuer a Venezia, le discussioni con Freud davanti ad un invitante piatto di strudel, mi sembrava convincente.
Di lì, è stato un crescendo di interrogativi, di perplessità, che non hanno però scemato il mio interesse a pronunciarmi soltanto una volta letto integralmente il testo. Evidente è l'impostazione americana nei confronti della psicoanalisi, approccio ben visibile nella serie televisiva In treatment, per intenderci, secondo cui lo psicoanalista non è un freddo e distaccato professionista, colui che lascia liberamente vagare la mente del paziente osservandone le circonvoluzioni adagiato su una poltrona dietro al classico divano, quanto piuttosto uno sperimentatore, non solo del proprio egocentrismo, ma anche della stessa relazione con il paziente, in barba a transfert, contro-transfert e discutibili scelte professionali. Per quanto la narrazione sia inserita all'interno di una data cornice storica specifica, quest'impostazione, sicuramente la stessa che Yalom adotta o ha adottato con i suoi pazienti, è sempre presente. La mente del lettore si presta alle diatribe esistenziali e ai quesiti intellettualoidi proposti dal dialogo Breuer-Nietzsche (anch'esso storicamente inesistente, ovviamente), ma rimane interdetta dalla magra figura che l'intera psicoanalisi ne fa. Nietzsche, spinto dalle sue nozioni di potenza e di debolezza, spodesta del tutto le argomentazioni di Breuer, che diventa il vero, e forse il solo (per quanto le conclusioni ritornino alle problematiche psicologiche di Nietzsche) paziente della relazione terapeutica, tanto da far pronunciare a Nietzsche tali parole "Sospenda il giudizio", cosa che per qualsiasi persona con un minimo di familiarità con Freud, la psicoanalisi, ecc. non può far nascere immediatamente l'idea che il filosofo tedesco voglia occupare nel romanzo la stessa funzione dei suoi ideatori, i quali a loro volta non sembrano capire come addentrarsi nel materiale psichico e come lavorarlo. Poi, altrettanto magicamente, Breuer sconfigge la sicurezza analitica di Nietzsche puntando tutto sull'ipnosi, uno stacco narrativo che lascia presagire che l'autore volesse concludere in qualche modo una partita che non riusciva più a gestire, specie nel lasciare ancora un briciolo di dignità alla psicoanalisi, per cui, evidentemente, la fretta e l'ansia di raggiungere lo scopo hanno impedito una resa più raffinata a livello compositivo e di fabula.
Il finale è della tipologia evisserotuttifeliciecontenti. Di conseguenza, il tutto risulta una lettura che non deve essere presa sul serio(e che probabilmente lei stessa non si prende sul serio), come una partita di scacchi giocata giusto per il gusto di digerire il cenone di Natale.

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