Adulto

adulto agg. e s. m. (f. -a) [dal lat. adultus, part. pass. di adolescĕre «crescere»]. – 1. Cresciuto, di persona che ha raggiunto il completo sviluppo fisico e psichico: uomo a.; donna a.; frequente come sost.: i bambini e gli a.; riservato agli adulti. Per estens., l’età a., e quindi forme a., faccia a. (cioè di persona adulta). 
2. Per estens., di piante e animali che abbiano raggiunto lo stadio definitivo della vita, divenendo capaci di riprodursi. 3. fig., letter. Giunto a maturità, sviluppato, progredito: essere ain un’artein una scienzamostra uno stile già adulto. Con valore verbale (è adulto = è cresciuto), in Dante, Par. VII, 60: A li occhi di ciascuno il cui ingegno Ne la fiamma d’amor non è adulto. (Da vocabolario online Treccani)
Il caso ha voluto che ultimamente abbia sentito da più parti, di diversa provenienza e convinzioni, difese a spada tratta o reclami rispetto all'essere adulti. La cosa che più mi dà da pensare è che tutti i discorsi che ho avuto modo di ascoltare fino ad adesso provengono da persone più o meno a me coetanee (per intenderci, chi è tra la fase della laurea e quella dei primi lavori). Questo discorso, ribadisco, travalica differenze culturali (intese sia in senso umanistico che in senso antropologico)e sembra essere preponderante in situazioni in cui bisogna prendere delle decisioni più o meno vitali o nel caso di conflitti in corso d'opera. Si è adulti, si è fra persone adulte, quindi bisogna attenersi a certe regole, pretendere dagli altri (anch'essi considerati adulti) determinati stati d'essere, certi e mirati tipi di aspettative. E questo tra una discussione triviale tra coinquilini sui turni per pulire o sul cercare di ristabilire un'armonia troppo spessa messa in pericolo, tra una discussione tra amici, feriti o incompresi per certe parole che si sono sentite o, alla peggio, rinfacciate, tra un confronto tra le proprie esperienze o aspettative professionali. Siamo adulti, quindi i discorsi diventano quasi programmatici e definitivi, non c'è spazio per i ripensamenti, le ricadute, le fragilità, i tentennamenti, le varie ed infinite sfumature di grigio.
Chi è che determina il concetto di maturità psico-fisica al quale è associata l'etichetta di essere adulto? La società? La cultura di riferimento, sia in senso ristretto (famiglia di provenienza), sia in senso allargato (cultura mediterranea, cultura anglosassone, ecc.)? Il gruppo dei pari? Sono tutte domande con un pizzico di retorica, ovvio. L'essere adulti è contestuale, ciò che per un inglese (faccio un esempio a me vicino) rappresenta lo stato di persona adulta, in una cultura dove l'uscire di casa il prima possibile, a sedici, diciassette anni, è un passo fondamentale nella propria auto-realizzazione, non coincide necessariamente con quello che un italiano medio associa a tale concetto, secondo il quale un sedicenne non è ancora in grado di autodeterminarsi al punto da vivere da solo, senza l'egida genitoriale. Queste considerazioni antropologicamente dotate di buon senso, però, non mi salvano dal mio vissuto di profondo stupore nel percepire, velatamente e non, un certo dogmatismo in questi miei coetanei che rivendicano la loro indipendenza, la loro presunta (presunta proprio perché difficilmente incasellabile "scientificamente") maturità. Il problema con il quale spesso mi scontro nel momento in cui questi discorsi raggiungono l'agone dell'interazione faccia-a-faccia è l'impossibilità di mantenere e supportare una propria specificità individuale, o, meglio, di far valere il principio della relatività. In altre parole, quella persona x, che non si ridurrebbe ad un etichetta, ad una parola, ad una definizione che contenga il concetto di essere adulti, in quanto, sia a livello sociale, sia a livello più meramente antro-poietico, sia ad un livello più semplicemente personale/individuale, ha tutta una serie di componenti (ad es. la difficoltà di conciliare le sue aspirazioni professionali con il vile denaro per manifesta impossibilità di trovare dei finanziamenti, a prescindere dalle proprie capacità professionali, o la propria storia personale, fatta di traumi ed un sommarsi di eventi casuali ma incisivi, che fa sì che tale persona abbia un particolare rapporto con il crearsi dei legami, con il radicarsi, ecc.) che fanno sì che si discosti o che non rientri esattamente nella concezione altrui di 'stato adulto', viene spazzata via e sostituita da un muro di clausole morali, di leggi, di giudizi, di pregiudizi difficile da scalfire e con il quale è difficile convivere.
Data l'assoluta allergia di questo blog per le etichette (lo stesso romanzo incompiuto prendeva le mosse da una ribellione, quasi violenta, per il sistema di pregiudizi e di etichette auto-prodotto dalla società), ho deciso oggi di dare spazio a questo mio stupore, per quanto possa essere molto personale e, quindi, difficilmente generalizzabile. 

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