Romanzo (forse incompiuto) a puntate - Parte IV (c)


(continuazione del capitolo terzo)

Il pollice smaltato di rosso geranio (un bleurgh anche per l'insaziabilità della vanità femminile) della mamma preme il campanello. Il consequenziale dlin dlon che dovrebbe percepire il mio cervello non viene registrato minimamente. Intorno a me percepisco una sensazione di tempo sospeso, carico di decisioni da prendere e di rivelazioni scomode. Come quando si aspetta in sala d'attesa sapendo che ci attende una puntura per vaccinarci da qualche morbo reputato "impensabile per un paese civilizzato". Ma esistono morbi di serie a e di serie b? Non credo, ma ripiombo nuovamente in quella pausa raggelante dalla vita vissuta.
Serro inconsapevolmente le mani a pugno. Io mi voglio difendere dal nemico, qualunque esso sia, e non voglio fare la figuraccia di essere colta impreparata. Un sottile e penetrante cono di luce si staglia sul pavimento del pianerottolo, accompagnato da un sommesso cigolio della porta. Fa capolino il viso anonimo di una segretaria con i capelli raccolti, i tacchi a spillo ed un'agenda gonfia quasi da voler controbilanciare la magrezza da fenicottero della sua proprietaria. Con un sorriso di circostanza, l'algida donna ci fa strada e ci fa accomodare in una sala piena di riproduzioni di opere di Picasso. L'incongruità assiale dei nasi e delle bocche dei personaggi ritratti mi fa scaricare la tensione in un tentativo logico di riassemblare il tutto ed immaginarsi i volti reali delle persone ritratte prima che intervenissero i canoni cubisti a sparpagliare il tutto. Sono riuscita a ricostruire il volto pieno e florido di una giovane donna bionda, poi quello di un uomo segaligno con la coppola in testa, probabilmente un mendicante girovago, quando la segretaria fa di nuovo la sua apparizione per guidarmi nello studio del mio futuro strizzacervelli. Ovviamente per mano, "sono pur sempre una minore." Minore di dimensioni, certo che sì, ma non credo che ai grandi rimasti piccoli di statura, perché latitanti in qualche ormone della crescita, ci si rivolga loro chiamandoli "minori". "Ehi minore! Vieni qui a registrarmi il libro della biblioteca (tanto per ricalcare lo stereotipo più comune sui piccoletti spediti in qualche pia biblioteca per ricevere il salario minimo ma dignitoso)!". Naa, non credo proprio. Sono i grandi che hanno stabilito così per toglierci qualsiasi voce in capitolo sulle decisioni importanti, come, appunto, andare o no dallo psicologo. Lo hanno fatto per toglierci del potere e lo hanno ammantato con la chiosa paternalista del fatto che siamo "deboli/non ancora maturi e/o responsabili", un po' lo stesso meccanismo mentale che soggiace ai caschi blu delle Nazioni Unite mandati per redimere qualche conflitto nel "continente nero" o nella politica di qualche  presidente americano nella "prevenzione del terrorismo". Loro sono la civiltà, il genitore o il fratello maggiore, sanno cosa vogliono gli altri "più giovani" senza neanche aver tentato di comprendere i reali desideri di quest'ultimi. E' così e basta.
La mamma non entra con me perché era venuta da sola in precedenza a presentarsi. Bel piano diabolico mi ha architettato alle spalle...! Pfui! Lo studio del mio futuro strizzacervelli è immerso nell'ombra, se non fosse per quella piccola lampada da tavolo squadrata sulla scrivania di legno antico baroccheggiante. Nella penombra riesco a distinguere diverse maschere africane, oceaniche ed indonesiane. La cosa non mi spaventa neanche un po', anzi riesco a riconoscerne le fattezze e ad associarle ad un nome e ad un rito ben specifico. Tutto merito di un antropologo, passato corteggiatore di Zoe, sempre disperso per il mondo che le donava volti tumefatti e lignei al posto di ortensie e rododendri. Non doveva essere stato un granché come antropologo, dal momento che non aveva capito per lungo tempo che la zia Zoe non conosce nulla dell'amore, né se ne interessa. O forse era soltanto accecato dai fumi dell'innamoramento. Anche i migliori cervelli si riducono in macinato scelto per "questo genere di inconcepibili sciocchezze", come ama spesso sentenziare la zia con una faccia disincantata. Continuo a perlustrare lo studio del mio strizzacervelli che, intanto, gira lentamente la sedie a rotelle (è rimasto invalido per la poliomelite contratta da neonato) nella mia direzione. Ancora quadri dalle linee o dai volti sconnessi, sicuramente scelti apposta per stimolare il paziente a far combaciare i cocci rotti della sua psiche. Mai che questi psicoanalisti abbiano pensato nemmeno per un istante al fatto che un paziente potrebbe essere infastidito da tanta incoerenza visiva o che, precisi e meticolosi come potrebbero essere, passino l'intera seduta a concentrarsi per mettere a posto mentalmente il quadro invece di trasferire quell'energia neuronale nello scavo di sé stessi? Oppure che, semplicemente, non gliene importa nulla di quei quadri e che l'unica ragione per cui li fissano tutto il tempo è che così possono raccontare ricordi scomodi senza incrociare lo sguardo del terapeuta, avvertirne l'espressione e tradurla in un giudizio personale su cosa stanno dicendo? Sospendo la risposta perché non ho ancora conosciuto il mio dottore, ma nel caso in cui ragionasse in modo metonimico, se vogliamo essere eufemisticamente generosi, povera me!
Il mio psicoanalista, per mia sfortuna, conosce perfettamente il linguaggio dei sordomuti, dato che suo fratello è nato sordo. Scruto per un istante il suo volto: la barba bianca, unita alle basette, ad occhiali limpidi, ad una fronte spaziosa e corrugata, agli occhi azzurri e penetranti, al naso aguzzo e alla capigliatura bianca ma foltissima, mi riporta per un attimo alle foto di Freud nelle copertine dei libri dei miei genitori. Mi dedica un breve sorriso, professionale ma accogliente al punto giusto da sentirsi in colpa nell'usare il sarcasmo come scappatoia. Comincio a sentirmi in trappola, un rivolo di sudore mi cola giù toccando ogni mia singola vertebra. Deglutisco rumorosamente.

(continua)

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