'Facciamo tutti i capricci' Adam Phillips (Internazionale 998)

Nessuno guarisce mai del tutto dal sadomasochismo
della propria infanzia.
Pensare ai rapporti tra genitori e igli
come a rapporti di potere può non piacerci,
anzi, potrebbe sembrare una
distorsione del ruolo genitoriale. Ma
soprattutto non vogliamo pensare che genitori e igli
possano in qualche modo ricavare una gratiicazione
sessuale dal ruolo che ricoprono gli uni per gli altri. Eppure,
per dirla nei termini più delicati possibili, per sentirsi
grandi è necessario far sentire piccolo qualcun altro.
Se vostro iglio scorrazza per la casa dicendo di essere
un supereroe, voi potete ricordargli che in realtà è
un bambino, oppure mostrarvi colpiti. Se
vostra iglia inciampa e cade, potete arrabbiarvi
con lei perché non sta attenta a
dove mette i piedi, oppure potete consolarla
in modo afettuoso.
Questi, più che ritratti del genitore
cattivo e del genitore buono, sono semplicemente
reazioni o stati d’animo di cui
è capace qualsiasi genitore. Identiicandoci
con il bambino, cercando d’immaginarne
la forza e la vulnerabilità, ci uniamo
a lui. Senza identiicazione, ce ne separiamo.
Se proviamo dispiacere quando
nostra iglia inciampa, lo sentiamo nel corpo. Se la rimproveriamo,
no. Una delle due soluzioni è sadomasochistica
– il piacere, l’eccitazione, sta nel correggere la
bambina – mentre l’altra no. Una si basa su una presupposta
somiglianza tra noi e la bambina, mentre l’altra
aferma una diferenza. Una ha a che vedere con la solidarietà,
l’altra è punitiva. È la diferenza tra il voler avere
ragione e il voler essere gentili. Cioè tra due tipi di
autorità. Una è sostanzialmente umiliante e alimenta il
risentimento, l’altra è rassicurante e crea un legame.
Esiste una soluzione, un modo per far sì che le persone
smettano di volersi umiliare a vicenda?
Sappiamo che per alcune persone – per tutti noi, occasionalmente
– la sopravvivenza psichica dipende dalla
capacità di umiliare gli altri, di far sofrire anche a
loro ciò che abbiamo soferto noi, per sentirci rassicurati
sul fatto che ora siamo gli umiliatori, e non gli umiliati,
per “trasformare il trauma in trionfo”, usando
un’espressione dello psicoanalista Robert Stoller: trasformare
il trauma della vulnerabilità nel trionfo del
controllo onnipotente, il trauma dell’essere bambini
nel falso trionfo dell’essere adulti. Il bambino supplicante
e sottomesso diventa l’adulto arrogante e sadico.
In altre parole, dobbiamo partire dalla premessa che il
desiderio di umiliare fa parte del kit di sopravvivenza di
tutti: è il farmaco che ci autosomministriamo (e spesso
quello che preferiamo) per le inevitabili frustrazioni
dell’infanzia.
C’è qualcosa di intrinsecamente umiliante nel fatto
di essere bambini. Ogni bambino si sente umiliato dalla
propria dipendenza dai genitori e dalla propria relativa
impotenza davanti alle persone di cui ha bisogno, e
tutti provano il desiderio di vendicarsi per questa ineluttabile
mortiicazione. Il punto è quanto i genitori
sfruttino la dipendenza che lega il bambino a loro, se la
rendano più umiliante di quanto già non sia, se si servano
del fatto che il bambino è piccolo per
sentirsi grandi. Se lo fanno – e tutti i genitori
ogni tanto lo fanno – non è perché
sono persone cattive, ma più spesso perché
riproducono delle loro esperienze
infantili. Punire le persone che maltrattano
i bambini equivale anche a punirle
per le punizioni che loro stesse hanno subìto.
Ci sono quindi due aspetti fondamentali
nell’infanzia. Il primo è che il bambino
dipende completamente da una persona,
o da più persone, che non può controllare
(“La madre è tutto, per il figlio”, osserva la psicoanalista
Enid Bálint, “ma il figlio non è tutto per la
madre”). Questo può rendere il bambino rabbioso, crudele
e al tempo stesso punitivo. Il secondo è che il bambino
deve fare qualcosa per trasformare e rendere sopportabile
la sofferenza inevitabile che questo comporta.
Il bambino (e l’adulto che diventerà) deve trovare
modi per sopravvivere alla frustrazione e al senso d’impotenza
insiti nel carattere bisognoso dell’infanzia. E il
genitore, oltre a frustrare il iglio, deve aiutarlo a sopportare
questa frustrazione. Il sadomasochismo risolve
il problema per entrambi: l’adulto trasforma l’angoscia
di dover frustrare il bambino in piacere, per renderla
sopportabile, e il bambino trasforma in piacere la propria
frustrazione. L’adulto diventa sadico, il bambino
diventa masochista. Ogni volta che qualcosa ci risulta
insopportabile, siamo portati a cercare un modo per
ricavarne piacere: è una sorta di alchimia psichica.
Da bambini impariamo presto – anche se poi siamo
inclini a dimenticarcene – che non sempre possiamo
avere quello che vogliamo. Anche se le sconitte degli
appetiti si possono trasformare in trioni della volontà,
è necessario fare qualcosa per incanalare e risolvere la
nostra frustrazione. Nello scenario più elementare, una
persona è impotente nel suo bisogno, e l’altra può farsi
carico di questo bisogno oppure abbandonarlo.
da bambini, l’unica spiegazione che sappiamo darci
del fatto che qualcuno non soddisfa il nostro bisogno
pur essendone in grado, è che non vuole farlo. e in questo
senso soggettivo, tutte le frustrazioni della nostra
infanzia sono causate da un sadico. davamo per scontato,
essendo noi stessi alla perenne ricerca del piacere,
che i nostri genitori ricavassero un qualche piacere dal
privarcene. altrimenti perché avrebbero dovuto fare
qualcosa di così gratuito? dal canto nostro, impotenti
com’eravamo, abbiamo dovuto fare di necessità virtù,
trasformando la privazione in qualcosa di eccitante, e
sviluppando un talento per il masochismo.
a chi gli chiedeva una deinizione di buon genitore,
lo psicologo familiare carl Whitaker rispondeva: “Una
persona che gode a farsi odiare dai igli”. Godere del
fatto che i igli ti odino può essere sadico, ma è anche
l’unico modo per resistere all’odio di un bambino. tutti
i bambini odiano i loro genitori, per quanto li amino,
e questo perché i genitori, dal loro punto di vista, sono
l’unica fonte di frustrazione. I bambini non sono al corrente
dell’utile osservazione di Freud secondo cui il
desiderio è per sua natura insaziabile (“Il desiderio eccede
sempre la capacità del suo oggetto di soddisfarlo”).
chiunque tenti di soddisfare appieno un’altra persona
– soprattutto nel caso di adulti con i bambini – gioca
una partita destinata a essere persa. la promessa di
una totale soddisfazione equivale a una catastroica
promessa di delusione, il che la rende un’incitazione
alla violenza. Ogni bambino vive la frustrazione come
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punizione, e per giunta viene talvolta ulteriormente
punito per la sua reazione alla frustrazione. Nel migliore
dei casi, l’autorità genitoriale cerca di gestire questa
escalation fatale.
Vale la pena di sottolineare che la punizione e l’autorità
che la legittima si basano su una conoscenza antecedente:
è possibile frustrare una persona soltanto sapendo
di cosa ha bisogno, e le si può inliggere un danno
o un castigo solo se si è consapevoli di ciò che le dà piacere.
I bisogni di un bambino sono la prima cosa che un
genitore è tenuto a conoscere. È la conoscenza fondamentale,
quella su cui si basa qualsiasi altra conoscenza.
Una conoscenza che deriviamo dalla nostra cultura,
mediata dai nostri genitori, il che rende quantomeno
interessante, per usare un eufemismo, il fatto che oggi
viviamo in una cultura nella quale competono così tante
opinioni diverse su quali siano i bisogni dei bambini,
cosa signiichi essere un buon genitore e quanto possa
risultare pericolosa l’autorità. Si parla tanto del fatto
che le culture moderne si allontanano dalla tradizione:
ecco, le pratiche di educazione dei igli (e di cura degli
anziani) sono le prime vittime. Man mano che i nostri
istinti genitoriali – le nostre tradizioni – vanno aievolendosi,
ci si trova a dover decidere come crescere i propri
igli. Esisteranno sempre dei genitori, ma potrebbero
non essere genitori che sanno quel che fanno. Nutriamo
un desiderio nostalgico e reazionario di persone che
sappiano quel che fanno: esperti di educazione infantile,
esperti di istruzione, esperti di salute mentale. Ma
dovremmo sentirci incoraggiati (oltre che turbati) dalla
radicale incertezza dei genitori contemporanei. Quando
mi convinco di essere la persona che credo di essere,
non compio soltanto, per usare una ben nota espressione
freudiana, una negazione, ma bensì un’illusione.
Ciò che la psicoanalisi aggiunge al dialogo sulla genitorialità
è che i genitori, le autorità, diventano tanto più
pericolosi quanto più accesa è la loro convinzione di sapere
cosa stanno facendo.
Non sorprende che nella cosiddetta era moderna
– perlomeno dalla ine dell’ottocento – la vita familiare
sia considerata diicile. Non potrebbe essere altrimenti.
Ultimamente, però, è diventata così angosciante da
spingere le persone a chiedersi quali possano essere le
alternative. Quando negli anni sessanta si pronosticava
la morte della famiglia – La morte della famiglia era il titolo
di un libro un po’ stravagante ma scaltro dell’antipsichiatra
David Cooper – era perché la vita familiare
risultava sempre più insopportabile. Il problema per
molti genitori moderni – ereditato in parte dalla psicoanalisi,
che a sua volta è un’eredità del romanticismo – è
che si vedono costantemente ricordare che, essendo
stati bambini loro stessi, bambini è ciò che sostanzialmente
sono ancora: che essere bambini equivale a essere
autentici.
È un’arma a doppio taglio. Nel migliore dei casi,
smantella quello che ci hanno insegnato a considerare
il divario vittoriano tra bambini e adulti, rendendo i genitori
più simpateticamente fantasiosi nei confronti dei
bisogni dei igli (anche se, privilegiando il punto di vista
del bambino, quello dell’adulto spesso inisce per smarrirsi
o sembrare troppo presuntuoso). Ma nel caso peggiore produce adulti che diventano complici dei figli,
limitandosi a mettere in scena una visione infantile di
cosa signiichi essere adulti: adulti supereroi, superedonisti,
supermoralisti. Adulti come individui privi di
limiti, che possono fare qualsiasi cosa desiderino. I limiti
reali, come ogni bambino sa, si scoprono e si costruiscono
sperimentando: inché non li si mette alla
prova, non sono limiti. Il bambino iperprotetto comincia
a credere che fuori, nel mondo, esista qualcosa di
davvero spaventoso, o che lui stesso sia spaventosamente
debole, se è necessaria tanta protezione.
L’incertezza su cosa signiichi essere un adulto è il
motivo per cui tanti adulti sembrano recitare una caricatura
del loro ruolo, vulnerabile in quanto ridotta ai
suoi aspetti più ridicoli. Come un travestito, un bambino
camufato da adulto interpreta una versione precoce
e fumettistica di ciò che lui stesso ha dovuto subire: un
potere borioso, un moralismo sentimentale mascherato
da moralità, e così via. Fare il genitore, in un certo
senso, equivale sempre a recitare il ruolo di un genitore:
prima ci identiichiamo con i genitori, e poi, come spesso
si dice, diventiamo loro. Se i bambini riescono a far
sentire i genitori impotenti, che potere possiedono i genitori?
O meglio, che genere di potere ritengono di dover
possedere, considerata la facilità con cui si sentono
inadeguati nel fare la cosa più normale al mondo: vivere
in famiglia e crescere dei igli?
Se l’autorità è una soluzione alla frustrazione – un
modo per gestirla, sopportarla, impedirle di trasformarsi
in omicidio, suicidio o tortura – qual è il genere di
autorità più adatto ad afrontare le frustrazioni dell’infanzia?
O, per dirla in modo meno astratto, qual è la
cosa migliore da fare quando un bambino fa i capricci in
un accesso d’ira, la scena di frustrazione primordiale,
non solo per i bambini? Ancora una volta, generalizzando,
il bambino si può punire, penalizzare, lo si può relegare
in un angolino. Oppure il genitore può rimanere
accanto al bambino con l’intento di contenerlo: impedirgli
di farsi del male, di fare troppi danni, ma senza
impedirgli di avere l’accesso d’ira, partendo dal presupposto
che a un certo punto si concluderà.
Il bambino si abbandona all’ira per un motivo apparentemente
banale, che però rappresenta un catalogo
di frustrazioni represse. È l’atto magico di una persona
disperata: se mi arrabbio abbastanza otterrò quello che
voglio, oppure distruggerò me stesso e il mondo in cui
devo patire simili tormenti. Il bambino ha bisogno di
sapere che esiste qualcuno di più forte della sua rabbia,
che può contenerlo e impedire al suo mondo di disgregarsi:
ha bisogno di vivere quell’esperienza. Spaventato
dall’idea di essere troppo potente, o in grado di distruggere
il proprio mondo, il bambino ha bisogno innanzitutto
che l’adulto gli dimostri che esistono dei freni alla
sua vita di fantasia, dove la violenza è sempre omicida
e l’appetito sempre insaziabile. Il genitore che punisce
il iglio perché fa i capricci – punizione che a sua volta
costituisce in sé una sorta di capriccio, una disperazione
relativa alle regole, anziché l’applicazione delle stesse
– sta dicendo al bambino: la mia ira è più potente
della tua, non abbiamo altro che quella. Si fa sofrire il
bambino per la sua sofferenza, che è come dire: la sofferenza genera soferenza, la rabbia e la frustrazione
non creano altro che rabbia e frustrazione. Il bambino
che viene punito per la sua frustrazione impara che la
frustrazione è contagiosa, e deve essere smaltita sotto
forma di rabbia. La frustrazione non è un materiale
grezzo da trasformare, ma un corpo estraneo da espellere.
Il genitore punitivo trasmette al bambino quello
che abbiamo imparato a deinire un doppio messaggio:
una persona arrabbiata per la propria frustrazione gli
dice che non deve arrabbiarsi per la sua frustrazione.
Puniamo una persona quando non sappiamo cos’altro
fare. Ma anche in questo caso è evidente che le questioni
sono due, e ciò che le distingue ci porta al cuore
della perplessità che regna oggi sul ruolo dei genitori. Il
capitalismo consumista ha fatto di tutto per convincerci
di avere una fobia per la frustrazione, che la frustrazione
sia l’ultima cosa che desideriamo. Tutti i problemi
della genitorialità moderna ruotano intorno a come,
perché, se e per cosa i bambini vadano frustrati. E prevedibilmente,
forse, il modo in cui gli adulti affrontano
tali questioni è legato alla storia del rapporto che loro
stessi hanno avuto con la frustrazione.
Per molte persone, l’esperienza della frustrazione
diventa sopportabile solo attraverso la soluzione masochistica:
rendere la frustrazione e chi o cosa la provoca
non solo piacevoli, ma se possibile sessualmente eccitanti.
Diventando ciò che alcuni psicoanalisti deiniscono
degli “appagatori frustrati” (i masochisti) o dei
“frustratori appagati” (i sadici), cadiamo in un equivoco.
E questi terribili equivoci derivano spesso dall’aver
reso il dolore piacevole, o di non aver mai imparato la
diferenza, ammesso che esista, tra dominare il dolore
e saper godere del piacere. Questo non signiica che si
debba esclusivamente – ovvero con un atteggiamento
di superiorità, sadistico – disprezzare l’alternativa sadomasochistica.
Dovremmo tuttavia constatare che il
sadomasochismo ci ha magicamente convinto a credere
che non esistano altre possibilità: è diventato a tal
punto una seconda natura da spingerci a pensare che
sia l’unica risorsa disponibile.
E come tutti i farmaci autosomministrati che provocano
assuefazione, ci fa anche dimenticare quale fosse
il problema originale che è stato risolto, e ci fa dimenticare
che forse di quel problema si potrebbe dare una
lettura diversa. Il problema potrebbe non essere come
noi, i genitori, possiamo evitare di frustrare i nostri igli,
ma come rendere la frustrazione più sopportabile, per
loro e per noi. Se la frustrazione, così come il conlitto
che inevitabilmente comporta, non viene a tutti i costi
considerata un problema, forse possiamo fare qualcosa
di diverso dal cercare di scioglierla o risolverla. Per definizione,
frustrante è ciò che non si può lasciare così
com’è. La frustrazione ci dà del lavoro da fare ma non
sempre sappiamo con esattezza che tipo di lavoro serva.
E molte cosiddette soddisfazioni non placano né
scaliscono la frustrazione che proviamo. La frustrazione
è una cosa che, per disperazione, siamo sempre tentati
di rendere piacevole o punire. Vale la pena di chiedersi
perché il nostro repertorio si limiti a questo, e come
sarebbero le nostre vite se non fossimo in grado di
trasformare il dolore in piacere.

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